Martedì prossimo, il DEF arriva per l’ultima volta sulle scrivanie del Consiglio dei Ministri: dal prossimo anno, secondo le norme del Patto di stabilità europeo, si chiamerà “Patto fiscale strutturale di medio termine”, con impegni che andranno spalmati sull’intera legislatura e sarà Bruxelles a decidere cosa va bene e cosa no.
Ma sono problemi futuri, perché sul presente incombono le parole del ministro del Mef Giorgetti, che ha messo la firma su un documento in cui le tre variabili fisse sono sostanzialmente uguali a quanto immaginato mesi fa – crescita dell’1%, deficit al 4,3%, debito intorno al 140% - una sorta di congelamento in vista della tornata elettorale UE e di possibili tempi supplementari di una manovra correttiva prevista a giugno. “Credo che approveremo il Def entro i primi 10 giorni di aprile e in base alle istruzioni della Commissione avrà probabilmente una conformazione leggermente diversa rispetto al passato, sicuramente più leggera. Ma ci saranno comunque numeri interessanti”. Cifre alla mano, al momento significa un margine di manovra compreso fra 2 e 4 miliardi sui 15 necessari per scongiurare l’aumento delle tasse e confermare anche per il 2025 l’Irpef a due scaglioni.
Ma è proprio Giorgetti, ad aver ammesso davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato che “Essendo terminata a fine 2023 la sospensione del Patto di Stabilità e Crescita introdotta a seguito della pandemia e prorogata per via della crisi energetica, in base all'indebitamento netto registrato dall'Italia lo scorso anno (7,2% del Pil secondo le prime stime Istat) è scontato che la Commissione UE raccomanderà al Consiglio di aprire una procedura per disavanzo eccessivo nei confronti del nostro come di diversi altri Paesi”. Si parla di 10 o 12 Paesi – sui 27 dell’UE – costretti a ridurre dello 0,5% all’anno la spesa pubblica netta, la parte che non considera il pagamento degli interessi sul debito pubblico e voci di spesa occasionali o straordinarie. “L’Italia sta partecipando attivamente nell'ambito dei diversi gruppi di lavoro all'individuazione delle possibili criticità applicative e delle soluzioni più adeguate a favorire una sistematica considerazione dei diversi aspetti coinvolti. Non siamo così fessi di aver fatto un negoziato sul Patto di Stabilità senza sapere quale fosse il terreno e lo scenario nel quale andavamo ad inserirci: la procedura era già scontata lo scorso anno per l'Italia, la Francia ed altri 10 paesi alla luce del livello del deficit 2023”.
Per qualcuno, è una sorta di commiato del ministro leghista ormai pronto a fare le valigie con la nuova veste di Commissario UE, una sorta di promozione dopo mesi di torture tentando di tenere salda la rotta malgrado il navigatore impazzito del Superbonus. Insieme agli altri bonus edilizi, una misura che ha innescato una spesa pubblica fuori controllo: 114 miliardi dal luglio 2020 al febbraio 2024, e il conto non è ancora definitivo.
“Per evidenti ragioni di sostenibilità, il livello di debito pubblico italiano richiede la massima ponderazione delle risorse da destinare alle singole politiche pubbliche e, oramai, l’innegabile necessità di misurare e monitorare gli effettivi benefici di ogni singola spesa – riprende il Ministro - i vincoli della nuova governance europea richiedono però un cambio di prospettiva sulle garanzie pubbliche che, dalla fase emergenziale, ci riporti progressivamente verso un percorso ordinario. Al 31 dicembre 2023, l'esposizione dello Stato si è attestata intorno ai 300 miliardi di euro, pari a circa il 14,4% del Pil, in calo rispetto al 15,9% del 2022 e ai picchi raggiunti durante il Covid - che ricordo hanno toccato il 16,1% del Pil - ma ancora lontana dal 4,9% del 2019”.
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