Per un brevissimo periodo, il marketing ha creduto ciecamente nei “chatbots”, i software progettati per simulare le conversazioni con gli esseri umani. Di incrociarli prima o poi sarà capitato a tutti: sono i famigerati “assistenti virtuali” che i colossi della telefonia usano come scoglio per arginare i milioni di chiamate che riceverebbero ogni giorno.
Secondo una teoria troppo avanzata per essere vera non avremmo più dovuto soffrire l’agonia di dover attendere con pazienza di parlare con un altro essere umano, per di più sfinito dalla conversazione precedente.
C’era solo un grande, enorme problema: la tecnologia non funzionava. A chiunque abbia tentato di chiamare un call center era tutto molto chiaro: sentirsi rispondere “non ho capito, ripeti”, dopo la decima volta in cui si urlava “confermo”, qualche problema di fondo lo dimostrava. E quando finalmente il robottino sembrava aver capito, diventava chiaro che un insieme di software non era ancora in grado di gestire tutti i problemi. Forse solo i più elementari, a voler essere ottimisti.
Ma ora, pian piano, i chatbots stanno scomparendo, lasciando a un impiegato in carne, ossa e cuffia il compito di ricevere la chiamata, come un tempo. Secondo gli esperti del settore, un semplice e banale caso di autogol tecnologico, ancora troppo indietro per sostituire il contatto umano.
“Negli ultimi anni, milioni di persone in tutto il mondo hanno creduto all’idea che l’intelligenza artificiale avrebbe migliorato qualsiasi tipo di servizio - ha commentato Drew Kraus, analista di “Gartner” - e centinaia di aziende hanno implementato i chatbot pensando di assicurarsi i servizi di un assistente virtuale che non aveva bisogno di ferie, pause caffè e permessi retribuiti”.
Eppure, non si tratta di un addio, ma di una semplice battuta d’arresto che non fermerà l’ondata di digitalizzazione del settore: e mentre le capacità effettive potrebbero non essere ancora al livello pubblicizzato, la maggior parte degli addetti ai lavori è convinta che la tecnologia raggiungerà presto il livello agognato.
“Il mercato si è spostato verso un’aspettativa più alta - commenta Tony Bates, CEO di Genesys – e non si tratta solo degli inizi dell’automazione nei call center, ma di una tecnologia che può permettere di creare qualcosa che va ben oltre la customer experience”.
I cambiamenti di questo periodo sono forse un po' meno eccitanti di quelli dimostrati dai robot, ma comunque necessari per raggiungere il livello di automazione che i fornitori promettono per sicuri. Per anni, le aziende hanno dato in gestione i loro call center a server controllati privatamente, ma con l’arrivo della pandemia e delle migliaia di chiamate fatte da gente a casa che telefonava per qualsiasi motivo, è diventato chiaro a tutti che l’investimento è diventato fondamentale.
Il potenziale di mercato in questo momento, come in molte altri settori della tecnologia aziendale, è enorme: questo è uno dei motivi per cui “Zoom”, il ben conosciuto programma di videoconferenza, ha acquistato il fornitore di software per contact center “Five9” spendendo 14,7 miliardi di dollari.
Oltre ad automatizzare i vari aspetti dei servizi post-vendita, le imprese vogliono essere più proattive nel raggiungere clienti insoddisfatti ben prima che arrivino al punto di esasperazione, ma cercano anche essere in grado di inviare offerte mirate sempre più tempestive.
Oggi, questo in gran parte non accade: quando un addetto al call center risponde alla chiamata, non ha alcun tipo di informazioni su chi è il cliente all’altro capo del telefono, e quali sono le interazioni passate: molti dei dati sono ancora segmentati tra i vari dipartimenti. E questo, robot o meno, agli occhi del cliente è la dimostrazione lampante di una disorganizzazione preoccupante.
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