È il maggio del 2014.
A New York, nella sala conferenze del New Museum è in corso la quinta edizione della “Seven on Seven”, l’evento che riunisce artisti di spicco ed esperti di tecnologia, sfidandoli a creare qualcosa di nuovo: un'opera d'arte, un prototipo, qualunque cosa immaginino.
Tra di loro ci sono Anil Dash e Kevin McCoy, un imprenditore interessato alle tecnologie e un “digital artist”, cioè un creatore di opere d’arte digitali, molto apprezzato.
I due espongono il loro visionario progetto di “grafica monetizzata”, cioè un matrimonio tra l’arte digitale e le criptovalute (comparse già qualche anno prima).
Partendo dalla constatazione che, nel campo dell’arte digitale, le opere non vengono considerate di valore a causa della loro non fisicità, l’idea è quella di legare la circolazione delle creazioni digitali ad un mercato regolato con la tecnologia blockchain, cioè quel sistema basato su una catena di dati che, in formato elettronico, registra – come un libro mastro - le transazioni e la tracciabilità dei beni digitali in una rete commerciale non fisica, con in più il vantaggio e la garanzia di essere condiviso e immutabile.
In tal modo, la proprietà esclusiva di un’immagine o altro prodotto digitale certificati come autentici può essere verificata tramite l’associazione tra la sua provenienza e la catena di transazioni/passaggi di proprietà ad essi riferita.
Quel giorno Dash e McCoy, con la loro relazione, suscitano perlopiù l’ilarità della platea, ignara di assistere alla nascita di un fenomeno che pochi anni dopo sarà destinato ad esplodere: il mercato del NFT.
L’acronimo sta per “Non-Fungible Token”, che tradotto in italiano vuol dire “gettone digitale non fungibile”, “non riproducibile”. Sostanzialmente (anche se di sostanza non ce n’è affatto!) si tratta di un modo per identificare in maniera univoca, sicura e indubbia un prodotto digitale creato su internet: un video, una foto, una GIF, un testo, un articolo, un audio, persino un tweet!
In pratica il NFT certifica ciascuno di questi oggetti come autentico, alla stregua della firma posta da un artista sulla sua opera.
Tecnicamente ciò avviene trasformando il prodotto digitale in una stringa numerica (hash) che viene poi memorizzata in una blockchain, dove sono tracciabili la sua proprietà e i sui trasferimenti senza possibilità di cancellature o modifiche.
Ovviamente le transazioni di tali oggetti avvengono con l’impiego di criptovalute, e, nell’ultimo anno, si è assistito alla crescita di un mercato enorme di “Crypto Art”, opere e oggetti digitali venduti all’asta anche a centinaia di migliaia o milioni di euro.
Attualmente l’artista più quotato è Beeple (nome d’arte di Mike Winkelmann), che, alla prima asta di arte digitale di Christie’s, ha venduto una singola opera – dal titolo Everydays - a 69,3 milioni di dollari tramite la blockchain Ethereum (la piattaforma che ospita la seconda criptovaluta per valore – l’ether - e che ha dato vita agli “smart contracts”, contratti che si eseguono automaticamente nel momento in cui le condizioni sottoscritte dalle parti vengono soddisfatte). Per avere un’idea dei numeri, si pensi che nel 2014 una delle celebri Ninfee di Monet è stata venduta a 54 milioni di dollari!
Jack Dorsey, amministratore delegato di Twitter, a marzo 2021 ha venduto il suo primo tweet come NFT per 3 milioni di dollari.
Ora, da profana quale sono ma, soprattutto, da persona dotata di uno spiccato senso pratico, ciò che mi viene da domandarmi è quale gusto possa esserci e che valore possa avere spendere così tanti soldi (non scordiamoci, infatti, che le monete virtuali sono un po’ come le fiches: sostituiscono il contante ma si comprano e si cambiano con soldi veri!) per comprare un bene virtuale di cui i sensi non potranno mai godere pienamente?
Un conto è possedere un Monet, un Picasso, una qualunque anche minuscola opera d’arte che si può vedere, collocare in un luogo fisico dove poterla toccare e contemplare, attorno alla quale conversare o scambiarsi sensazioni ed impressioni; altro è possedere un file (immagine, video, audio) che – come dicono i miei studenti – si può comunque scaricare, fotografare, ascoltare e chi se ne importa che non è un originale: è e resta qualcosa di effimero e di innegabilmente virtuale, anche in copia!
Ed infatti, chi ha un oggetto della crypto art non ha alcun diritto effettivo tra quelli che, secondo la definizione normativa dettata dal nostro codice civile, connotano la “proprietà” (ossia “godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), ma solo la “velleità” di dirsi proprietario, senza possedere un copyright o una stampa fisica di quell’oggetto: al massimo possiede una ricevuta d’acquisto!
Temo di dover giungere alla conclusione che tutto ciò sia significativo di un cambiamento della percezione di ciò che davvero sia riconducibile a canoni artistici e di bellezza; che sempre più gli esseri umani si stiano rifugiando in un universo fittizio e onirico (un Metaverso, manco a dirlo!) dove, sfumando i contorni della realtà, si finiscono anche per perdere sensazioni, valori e virtù, la cui misura viene lasciata all’insignificante metro della vacuità e del plagio; che al piacere visivo degli oggetti fisici stia sempre più sostituendosi la “tentazione di un concetto”, cioè la scelta di caricare di valore qualcosa che nella sua astrattezza non ne ha alcuno.
Il tutto senza nemmeno concedere la possibilità d’un riferimento materiale davanti alla cui insignificanza poter dire: “Il mio falegname con trenta euro te lo farebbe meglio!” (cit.)