Un paio di settimane fa circa ha fatto scalpore una dichiarazione del neoministro dell’Istruzione (e del Merito), che pare abbia una particolare inclinazione nel diventare bersaglio di critiche, dal momento che non è affatto nuovo ad affermazioni (o lettere!) che sollevano inevitabilmente polemiche e disappunto, soprattutto tra chi la scuola la fa e la vive davvero.
Intervenuto all’evento “Milano direzione Nord, una nuova stagione per l’istruzione”, ha difatti esposto il suo pensiero su quale sarebbe la soluzione per arginare il fenomeno della violenza tra giovanissimi, dichiarando: “Se si sospende un ragazzo, il rischio è che poi vada a fare altri atti di teppismo, o magari si dia allo spaccio o alla microcriminalità. Quel ragazzo deve essere seguito, quel ragazzo deve imparare che cosa significa la responsabilità, il senso del dovere. Noi dobbiamo ripristinare non soltanto la scuola dei diritti, ma anche la scuola dei doveri. Quel ragazzo deve fare i lavori socialmente utili, perché soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche. Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità. Di fronte ai suoi compagni è lui, lì, che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. Da lì nasce il riscatto. Da lì nasce la maturazione. Da lì nasce la responsabilizzazione”.
Le reazioni di protesta e disaccordo immediatamente seguite a tali esternazioni sono state davvero numerosissime, tant’è che lo stesso Ministro si è sentito in dovere di correggere il tiro, finendo tuttavia per far peggio, giacché, nel corso di un programma televisivo di Sky Tg24 (“A cena da Maria Latella”) in cui è intervenuto qualche giorno dopo come ospite, a proposito dell’uso dei cellulari in classe ha ribadito il suo concetto: “Ormai è diventato difficile entrare in una classe perché gli episodi di bullismo, di indisciplina ma anche talvolta di disattenzione voluta, tipo il ragazzo che gioca con il cellulare mentre il ragazzo spiega, sono sempre più diffusi. Limitarsi alla sospensione che cosa vuol dire? L’idea ad esempio dei lavori socialmente utili, che ti educano alla responsabilità… Perché un ragazzo deve portare in classe un cellulare? In classe si va per studiare”.
Al di là del merito (con l’iniziale minuscola, stavolta) delle questioni – bullismo, uso del cellulare a scuola, ecc. – su cui sono realmente auspicabili interventi efficaci, è sulla reiterata presa di posizione “pedagogica” pretesa dal Ministro che conviene soffermarsi, considerando sostanzialmente due aspetti.
Il primo è quello su cui si è perlopiù accentrata la pletora di critiche: l’idea anacronistica e di certo poco democratica del Ministro (che dubito sia stato ispirato da precetti francescani!) secondo cui l’umiliazione può assolvere ad una funzione educativa. Partendo dal presupposto che da un ministro giurista non si può evidentemente pretendere una competenza pedagogica e neppure psicologica, un po’ di buon senso invece lo si può reclamare. E ciò vuol dire che il suggerito rimedio dell’umiliazione come punizione non può ritenersi affatto in linea con il rispetto della dignità umana che è tra i primi insegnamenti che bisogna apprendere, a casa come in ogni contesto sociale, scuola compresa.
La radice di termini come “umiliazione” e “umiltà” risiede nel latino “humus”, cioè suolo, terra; qualcosa, dunque, che sta in basso. Ma compito della scuola non è quello di respingere in basso, di annullare; piuttosto è quello di far crescere, elevare, staccare da terra. Una scuola pubblica – e dunque uno Stato – che predichi l’umiliazione come pratica formativa rischia di essere accusata di violenza, poiché altera la sua funzione di istituzione vocata – tra l’altro - alla crescita dell’identità dell’individuo, finendo invece per reprimerlo e sfiduciarlo.
L’umiliazione non forgia il carattere, piuttosto lo distorce, come del resto ha dimostrato la storia scolastica di generazioni di bambini e ragazzi che – da adulti e anziani – ricordano ancora il trauma di essere stati umiliati dai loro insegnanti. Io me le ricordo ancora le orecchie da somaro, di cartone, che coronavano la testa del malcapitato che non aveva saputo declinare il congiuntivo di un verbo!
E dall’umiliazione nascono rancore, desiderio di rivalsa, odio per il sistema.
Il secondo aspetto – forse meno considerato nell’ambito delle polemiche che si sono scatenate – è quello relativo al valore negativo che il Ministro ha evidentemente inteso dare ai “lavori socialmente utili”, dal momento che, stando alle sue affermazioni, li vedrebbe comminabili come una umiliante punizione.
Il carattere stesso di “socialità” assegnato a quel tipo di lavori dovrebbe viceversa suggerire un’idea di solidarietà e comunità: si tratta di prestazioni utili a tutti, che dovrebbero marcare l’idea di come in un contesto civile dovrebbe amplificarsi un sentimento di reciprocità, di supporto degli uni verso gli altri, di sostegno vicendevole.
In quest’ottica, svolgere un lavoro per la collettività non può certo considerarsi “umiliante”. E non può allora impiegarsi come deterrente nei confronti dei giovani la minaccia di destinarli ad una di quelle prestazioni, sottintendendola come una umiliazione.
Andrebbe tra l’altro considerato quali siano quei lavori socialmente utili considerati umilianti, per doversi quindi concludere che chiunque li svolga nell’ordinario è come se fosse sottoposto ad una imprescindibile e continua condizione di umiliazione. Sono forse quelli che, al di là della raffinata nomenclatura impiegata per definirli (assistente scolastico, operatore ecologico…), contemplano attività “dequalificanti”? Quali sono i lavori di cui ci si dovrebbe vergognare?
No, non sono certo quelli che si mettono a servizio degli altri, quanto piuttosto quelli malpagati: quella sì che è un’umiliazione!
E allora forse, per paradosso, sarebbero proprio gli insegnanti i lavoratori del sociale più umiliati, ai quali andrebbe ispirata la punizione!