Per una strana e non trascurabile coincidenza, il mondo ha pianto la scomparsa, quasi contemporanea, di due personaggi che – ciascuno nella propria sfera – hanno incarnato l’eccezionalità, divenendo un simbolo.
Pelè è stato “o Rei” del calcio, il campione tra i campioni. Lo è stato in campo, col suo brio e le sue ardite doti calcistiche - a tratti quasi una danza - che gli hanno consentito di vincere tre coppe del mondo e di realizzare più di milleduecento reti, consegnandolo alla leggenda; lo è stato nella vita, con il suo impegno sociale: nella lotta contro le droghe, nelle battaglie contro il razzismo, nel suo ruolo di ambasciatore dell’ONU, perché la ricchezza, il successo e la fama non hanno mai cancellato la memoria di essere nato povero e di esser stato un tempo tra gli ultimi.
Papa Benedetto XVI è stato “il papa emerito”, una sorta di sovrano senza regno, al quale con estremo coraggio aveva rinunciato, ammettendo la sua inadeguatezza al compito cui era stato chiamato, specie dopo gli scandali del Vatileaks. E quel “gran rifiuto” che in altre epoche e in altri contesti era valso ad altro papa – Celestino V – persino il biasimo di Dante, nei riguardi del papa bavaro non è mai stato inteso come un gesto di “viltate”, ma piuttosto di profonda umiltà e di umana fragilità.
Eppure i loro mondi non sono stati distanti; il calcio ha fatto da denominatore comune, specie laddove ha trasceso la sua concretezza di gioco fatto di corsa, fatica e sudore, per diventare veicolo di valori e loro metafora.
Così è stato per Pelè, che da bambino, quando finiva di lustrare le scarpe altrui e senza averne un paio ai suoi piedi, correva tra le baracche della sua favela dietro a un pallone fatto di stracci, ignaro, allora, che ben presto quell’infinito talento – per cui mai avrebbe smesso di ringraziare Dio - lo avrebbe portato in cima al mondo, consentendogli di dar voce ai poveri della sua terra. Grazie al calcio, sarebbe divenuto un simbolo di riscatto e di speranza, mantenendo intatta la sua umanità, trasmettendo ad ogni bambino o bambina di favela il messaggio che la volontà e la dedizione possono tutto e che ogni strumento - anche un paio di piedi scalzi – possono servire al cammino verso una vita migliore.
Così è stato anche per papa Ratzinger, che oltre ad esser stato un grande tifoso del Bajern Monaco, sosteneva che il tifo calcistico fosse “come l’amore per Dio, perché gratuito e disinteressato”. In un testo scritto quando ancora non era papa, poco tempo prima dei mondiali del Messico del 1986, aveva osservato che “nessun altro avvenimento sulla terra può avere un effetto altrettanto vasto, il che dimostra che questa manifestazione sportiva tocca un qualche elemento primordiale dell’umanità e viene da chiedersi su cosa si fondi tutto questo potere di un gioco”. Di tanto, egli stesso aveva dato un’interpretazione, tenendosi al di sopra di quelli che avrebbero potuto essere facili moralismi, atti a spiegare il fenomeno calcistico come una sorta di strumento di compiacimento - rispondente all’antica logica del “panem et circenses” – o veicolo di marketing commerciale. In quello stesso testo Ratzinger aveva infatti svolto un'analisi della natura del gioco - e del calcio in particolare - considerandolo il contesto in cui avviene una felice sintesi tra la libertà e le regole dell'interazione: le regole educano alla vita rendendo dunque possibile la libertà. Il gioco, dunque “costringe l’uomo a imporsi una disciplina in modo da ottenere con l’allenamento, la padronanza di sé; con la padronanza, la superiorità e con la superiorità, la libertà. Inoltre, insegna una leale rivalità, dove la regola comune, cui ci si assoggetta, rimane l’elemento che lega e unisce nell’opposizione. Infine, la libertà del gioco, se questo si svolge correttamente, annulla la serietà della rivalità”. Perciò, “il gioco sarebbe una sorta di tentato ritorno al Paradiso: l’evasione dalla serietà schiavizzante della vita quotidiana e della necessità di guadagnarsi il pane, per vivere la libera serietà di ciò che non è obbligatorio e perciò è bello”.
È innegabilmente affascinante l’immagine del calcio come “una sorta di tentato ritorno al Paradiso”, non meno di quella che, nel 1971, aveva dato Pasolini su “Il Giorno” paragonandolo alla poesia: “Ci sono nel calcio dei momenti esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. (…) Il calcio che esprime più goal è il calcio più poetico”.
Ed ecco che dunque si torna alla premessa iniziale, a quella coincidenza che allora forse tale non è, se, nell’ora della morte, ha accomunato il mondo intero nel tifo e nella fede, esponendo al suo omaggio un papa e un re che hanno avuto un’intuizione comune: quella del calcio come veicolo di libertà e di riscatto, umano per l’uno, spirituale per l’altro.