9 luglio 2021

Istat: durante la pandemia l’esposizione sui mercati esteri non ha calmierato gli effetti sulle perdite delle imprese come nel 2011 -2013

Stando al Rapporto Annuale 2021 – La situazione del Paese pubblicato ieri dall’ISTAT, la crisi economica che ha colpito le imprese a seguito delle misure restrittive messe in essere dai vari Paesi ha colpito in maniera eterogenea non solo aziende operanti in settori produttivi diversi, ma anche imprese all’interno dello stesso settore.

“Nel corso del 2020 un’impresa su due ha subìto riduzioni di fatturato pari ad almeno il 10 per cento – si legge nel rapporto - e una su quattro ha registrato cadute non inferiori al 25 per cento, ovvero di un’entità tale da porre a rischio qualsiasi struttura di impresa. Per metà delle imprese le perdite sono state di entità simile sul mercato interno ed estero, a riflesso della natura esogena e globale della crisi, che ha causato un forte ridimensionamento degli scambi internazionali soprattutto nella prima parte dell’anno”.

Solo un quarto delle imprese esposte all’estero avrebbe dimostrato una certa tenuta.
Colpite in modo particolare sono state le imprese che non operano nel settore alimentare o farmaceutico come quelle dell’elettronica e manifatturiere.

“A differenza di quanto accaduto nella recessione del periodo 2011-2013, per molte imprese industriali la presenza sui mercati esteri non ha rappresentato un elemento di tenuta complessiva rispetto a chi opera sul solo mercato interno” sostiene l’Istat secondo il quale “per la metà delle imprese le perdite sui due mercati si sono sostanzialmente equivalse (con variazione mediana intorno a 10 per cento)”.

L’unica eccezione in questo senso l’avrebbero fatta quelle imprese con una esposizione all’estero che compone meno del 5 per cento del proprio fatturato totale. La metà delle quali, stando ai dati presentanti, nel 2020 ha registrato perdite di export non inferiori al 17,5 per cento, un valore doppio rispetto a quello delle imprese maggiormente orientate ai mercati internazionali.

La pandemia ha messo a nudo anche le differenze tra imprese operanti nello stesso settore in cui “fattori strutturali, orientamenti strategici, grado di competitività raggiunto in precedenza” hanno fatto la differenza nel momento in cui e’ subentrata la crisi.
Secondo i dati raccolti dall’Istat, il gruppo delle imprese solide (“unità produttive che, esposte a una crisi esogena, appaiono in grado di reagire in maniera strutturata e la cui operatività risulta influenzata solo in maniera marginale”) costituisce una minoranza dell’universo delle imprese italiane (solo l’11 per cento in termini di numerosità), “ma rappresenta la quota di gran lunga più significativa in termini di occupazione (46,3 per cento)”. Al contrario, le unità a Rischio Strutturale (“imprese che subiscono conseguenze tali da metterne a repentaglio l’operatività”) sono il 44,8 per cento del totale e rivestono un ruolo molto meno rilevante per l’economia (20,6 per cento dell’occupazione).

Per quanto riguarda le differenze di resilienza tra i vari settori, sono le unità dei servizi, maggiormente investite dagli effetti diretti e indiretti delle misure di contrasto alla diffusione del virus e dei cambiamenti nei comportamenti di consumo, a evidenziare le condizioni più pervasive di rischio e fragilità. Nel terziario, per esempio, caratterizzato da un tessuto di imprese meno capace di resistere allo shock negativo risulta a Rischio Strutturale circa il 60 per cento delle imprese dei servizi alla persona e oltre il 48 di quelle dei servizi di mercato, mentre la quota non supera un terzo tra quelle di industria in senso stretto e costruzioni. All’opposto, quasi il 41 per cento delle imprese industriali mostra, nel complesso, caratteristiche di resistenza o solidità, a fronte di quote comprese tra il 22 e il 28 per cento negli altri comparti.
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