In una delle sue frasi più note, Warren Buffett, l’economista americano soprannominato “l’oracolo di Omaha” per l’enorme capacità di prevedere gli investimenti finanziari, assicura che “Ci vogliono vent’anni per costruirsi una reputazione e cinque minuti per perderla”.
Lo dimostra il recente “pandoro-gate” che ha coinvolto la galassia delle aziende milionarie di Chiara Ferragni, influencer e imprenditrice che sembrava impermeabile alle critiche. Ma oggi, sono i rischi ESG (Environmental, Social and Corporate Governance) a rientrare fra i primi più palpabili 5 timori per la reputazione di un’azienda, ovvero le conseguenze economiche che possono derivare dall’alterazione del giudizio, della percezione, delle aspettative, delle opinioni, della credibilità o della fiducia percepita dall’esterno. Rischi che oltre ad una diminuzione del valore del brand possono portare ad un assottigliamento delle quote di mercato e alla chiusura di relazioni strategiche, arrivando perfino ad un “downgrade” delle agenzie di rating.
Per contro, solo uno sparuto 10% delle aziende ne misura il grado con i propri stakeholders, contro il 37% del 2022 e un altro 14% adotta un sistema di governance contro i rischi. Per finire i numeri con il 13% che ritiene sufficiente il proprio “risk assement”, ovvero la capacità di “resilienza” aziendale di fronte alle sempre possibili crisi reputazionali, malgrado il 95% abbia un budget destinato a quello.
È quanto racconta l’edizione 2023 del “Reputational Risck Readiness Report” stilato annualmente dalla Will Towers Watson, multinazionale inglese specializzata nella gestione del rischio, il brokeraggio assicurativo e la consulenza aziendale, che sull’argomento ha coinvolto nel 375 risk manager di 20 Paesi appartenenti a settori diversi, dal retail ai trasporti.
Emerge con chiarezza che oggi, tempi in cui sono sufficienti i social media per celebrare o affossare qualsiasi azione, idea, azienda o impresa con la stessa feroce velocità, la reputazione di un’azienda è uno dei fronti più sensibili e delicati. Non è un caso se i potenziali rischi di immagine, ha spiegato al “Financial Times” Rupert Younger, uno dei più autorevoli esperti in materia, sono ormai trattati alla stessa stregua di quelli finanziari, anche se come dimostra il report della WTW, sembra pericolosamente in calo la fiducia verso i sistemi di gestione e di risposta alle crisi, a cui in genere è deputata l’attività di audit, sufficiente per tenere sotto controllo lo stato della propria reputazione e nel caso attivare contromisure tempestive per ridurne quanto più possibile gli effetti.
Una pericolosa emorragia che si avverte in particolare nella sempre più diffusa difficoltà a condividere con partner, clienti, enti, investitori e finanziatori la propria posizione e gli sviluppi verso i temi cari all’ambiente. Secondo le ricerche WTW, si tratta in realtà di un delicato momento di transizione verso una maggiore consapevolezza dei rischi connessi al reputation managament, con un numero crescente di aziende e imprese attrezzate a sufficienza per capire e anticipare quando le criticità possono trasformarsi in rischi concreti per la propria reputazione.
“I risultati del nostro studio sembrano affermare che le aziende stanno facendo dei passi indietro, ma la realtà è molto più sfumata – aggiunge WTW - col crescere della rilevanza dei parametri ESG, soprattutto sui social media, le aziende hanno iniziato a valutare il rischio reputazionale in modo più attento. Questo le ha spinte a considerare la reputazione come un rischio finanziario e non solo un problema di immagine, e le ha portate ad aumentare i budget per affrontare questo tipo di crisi. Allo stesso tempo, però, cresce la preoccupazione per i potenziali contraccolpi sui social media, che potrebbero far perdere numerose opportunità di business. È dunque necessario un nuovo approccio a questo tema e le aziende se ne stanno rendendo conto”.
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