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Malati d’ingratitudine

Autore: Ester Annetta
Nell’immaginario collettivo, quando - rispetto alle relazioni - si parla di abbandono, si è propensi a pensare in maniera più immediata ad una moglie/compagna lasciata dal proprio uomo o a figli lasciati dalle madri o da entrambi i genitori; ci si pone, insomma, immediatamente in una prospettiva in cui si dà anzitutto per scontato che ci sia una sorta di gerarchia tra i membri della relazione per cui l’uno prevarica l’altro (generalmente l’uomo avanza sulla donna, i genitori sui figli) e, di conseguenza, sia sempre il più debole a subire l’azione del più forte.

La cronaca, del resto, riporta molto spesso episodi di violenze domestiche seguite da abbandoni in cui protagonista negativo è perlopiù l’uomo, come pure di madri (prevalentemente) o di coppie di genitori totalmente disinteressati alla cura dei figli, che lasciano quindi in condizione di grave solitudine morale ed affettiva e talvolta persino fisica.

È invece meno immediata – a tal ultimo proposito - la considerazione della possibilità che si verifichi l’inverso, che siano cioè i figli ad abbandonare i genitori.

Non ci si riferisce evidentemente a quelle scelte di vita che comportano naturalmente il distacco dalla famiglia di provenienza né alla lontananza imposta da distanze fisiche, ma piuttosto a quegli innumerevoli casi – purtroppo poco sottolineati – in cui l’abbandono dei genitori è prima di tutto emotivo ed affettivo.

In un contesto culturale - qual è il nostro – fondato per tradizione su un’idea quasi sacra della famiglia e dei suoi valori, al punto da costituire ostacolo all’accettazione di modelli che non corrispondano a quelli canonici - vien da sé che certe “prese di distanza” dei figli dai genitori siano inevitabilmente etichettate come ingratitudine.

Quanto sia nutrito l’esercito degli ingrati e quali siano i motivi che generano quel sentimento è un dato che non ha statistiche; ma non lo si può non considerare alla luce di alcuni episodi che fanno riflettere su quanto il distacco e l’indifferenza filiale possano essere esecrabili.

Due storie recentissime ne rivelano gli odiosi contorni; storie di drammatica solitudine ed abbandono in cui figli presenti ma di fatto inesistenti hanno marcato con il loro disinteresse la fine penosa dei propri genitori.

L’ultima è di tre giorni fa.

I condomini di uno stabile di Firenze, insospettiti dal forte odore proveniente dal piccolo monolocale dove vive un uomo di 59 anni, decidono di allertare la figlia, che prontamente accorre, facendo così la macabra scoperta del cadavere di suo padre, morto sul divano da circa un mese, secondo i primi rilievi.

Poco più di una settimana prima lo stesso accade ad Ancona, dove solo a seguito del terremoto del 9 novembre una donna di 78 anni viene ritrovata morta in casa dalle forze dell’ordine, allertate dalla figlia che non riusciva a contattarla telefonicamente. Ma il suo decesso col sisma non c’entra, giacché pare fosse morta da almeno due mesi.

È forse azzardato in casi siffatti giudicare ingrate le figlie di quel padre e di quella madre? Può darsi, dal momento che poco si sa dei loro rapporti.

Ma a quale altro motivo può allora imputarsi una condotta così biasimevole? Quali contrasti, dissidi, incompatibilità caratteriali, malintesi, ragioni economiche, gelosie possono essere talmente gravi da spingere all’ignorare totalmente chi è stato autore della propria esistenza? E se le ragioni non sono queste ma gli accampati impegni, il lavoro, le difficoltà organizzative da cui residuano soltanto poche briciole da destinare ai propri genitori – una telefonata di tanto in tanto o una visita nei giorni comandati - ci si può ritenere giustificati?

La retorica è facile in queste circostanze, è vero. Ma altrettanto vera è la pretesa di schermare con improbabili scuse un egoismo di fondo al cui cospetto ogni buona memoria – di dedizione, sacrificio, difesa e amore ricevuti – si annulla, rendendo evidenti inadempienze che, se pure a volte hanno implicazioni psicologiche radicate in questioni irrisolte (eccesso di protezione subito, separazioni, conflitti tra genitori), sono ugualmente incondonabili.

Del resto, tra la dedizione assoluta, quell’antica “pietas” rappresentata da Enea che porta a cavalcioni il vecchio padre Anchise in salvo da Troia in fiamme, e l’assoluto abbandono c’è una sostanziale via di mezzo colmabile in numerosissimi modi.

Allora ecco che riprende vigore l’idea dell’ingratitudine come molla che innesca la refrattarietà alla riconoscenza, quel sentimento che, invece, per condizione naturale dovrebbe appartenere ai figli.

In un libro di qualche anno fa, Maria Rita Parsi –psicologa e scrittrice – ha coniato l’espressione «sindrome rancorosa del beneficiato» per identificare la forma più eccelsa di ingratitudine, spiegandola come la sensazione di impotenza patita di fronte alla generosità, cui consegue l’incapacità di sentirsi in debito con qualcuno. Da qui, un profondo ed ingiustificato rancore (talvolta covato inconsapevolmente, altre volte no), che colpisce come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, ponendolo di fronte alla ambigua percezione di essere in debito di riconoscenza ma, al tempo stesso, di non voler ammettere d’esser stato beneficiato. Conseguentemente si arriva a negare o sminuire il beneficio e persino a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi; lo stesso benefattore diventa una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare.

Ecco, preferisco pensare che dietro ogni figlio capace di abbandonare i propri genitori alla solitudine ed alla noncuranza ci sia una forma acutissima di quella sindrome, di misura direttamente proporzionale all’amore che hanno ricevuto.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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