Dall’account Twitter della Commissione Affari sociali del Parlamento europeo la notizia: l’Unione Europea ha raggiunto un accordo, seppur provvisorio, sul salario minimo. Dopo un negoziato a Strasburgo, nella notte tra lunedì 6 e martedì 7 giugno, tra Consiglio e Parlamento Europeo, mediato dalla Commissione, è stata approvata la direttiva che si propone di individuare una cornice di riferimento per definire salari minimi adeguati ed equi. L’obiettivo non è dunque quello di fissare un salario minimo comune a tutti gli stati membri, considerato infatti che il diritto sociale e del lavoro è affare nazionale. Si vuole però tendere ad una convergenza verso l'alto delle retribuzioni minime, rispettando le specificità di ogni ordinamento interno e favorendo al contempo il dialogo tra le parti sociali: garantire un tenore di vita dignitoso, ridurre le diseguaglianze, limitare contratti pirata e precariato. Il testo dovrà comunque tornare alla Commissione Lavoro e Affari sociali, con un via libera definitivo previsto per l’inizio dell’estate, dopo le votazioni al Consiglio e al Parlamento europeo.
In concreto -Le condizioni da rispettare, su cui si interverrebbe con il provvedimento, si muovono trasversalmente su diversi aspetti: definire dei criteri in seno ai quali ogni Stato possa stabilire dei salari minimi legali adeguati, che dovranno essere aggiornati ogni due anni. Allo stesso tempo, si vuole promuovere la contrattazione collettiva e favorire l’accesso dei lavoratori ai salari minimi, monitorando assiduamente gli Stati membri con relazioni periodiche e un dialogo costante sui temi.
Il dibattito in Europa - Nel Vecchio Continente si tratta in effetti di un ambito sentito e di rilevanza per i governi nazionali. Il testo vuole lavorare nel pieno rispetto delle diversità fra i vari Stati, che effettivamente sono, in alcuni casi, sostanziali. Tutti i 27 vedono l’esistenza di un salario minimo, anche se in 21 si tratta di salari minimi legali – che vanno dai 2142 mensili in Lussemburgo, passando per i 1300 francesi e arrivando fino ai 312 della Bulgaria –, mentre negli altri sei, tra cui l’Italia, il salario minimo è definito e tutelato unicamente dai contratti collettivi.
Lo scontro politico italiano -Qui da noi, poi, la questione divide le forze politiche. Un Disegno di legge fermo in Commissione su cui il governo continua a non trovare punti d’incontro: un solido asse M5S-PD che chiede una celera approvazione, posizione sostenuta peraltro dal Ministro del Lavoro Orlando, che si oppone al centrodestra di maggioranza: un salario moderato si scontra con la tradizione culturale del Paese che vuole un salario che sottostia alla logica della produttività. Il rischio poi, potrebbe essere quello di fissare un livello troppo alto, impedendo a chi vuole, o può, lavorare solo al di sotto di quella soglia di trovare occupazione. Come sottolinea il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco al Festival dell’Economia di Torino, infatti, si potrebbe trattare di una deviazione positiva, ma da gestire senza automatismi.
Il ruolo del cuneo -Nella questione salariale è poi quella fiscale ad assumere ruolo centrale: a fronte di 300 miliardi di salari lordi nel settore privato, ogni anno lo Stato ne incassa 100 di contributi previdenziali e 80 di Irpef. Il cuneo fiscale e contributivo, la differenza cioè tra il costo totale del lavoro e lo stipendio netto percepito dai lavoratori, è dunque del 60% nel settore privato, a carico di imprese e lavoratori. Le parti sociali quindi convergono nel volere la riduzione del cuneo in cima all’agenda dei provvedimenti e, attendendo la convocazione del premier Draghi, si allineano Cisl, Cigl, Uil e Confindustria: la priorità è aumentare il netto in busta paga, con un taglio del cuneo a vantaggio dei lavoratori e rivedendo i contratti collettivi. Bonomi poi, nello specifico, spinge per un taglio strutturale del cuneo, fiscale e contributivo, fino a 16 miliardi di euro: per due terzi a vantaggio dei lavoratori e per un terzo delle imprese, portando a un beneficio equivalente a una mensilità in più.