16 luglio 2022

RDC

Autore: Ester Annetta
Quando il D. L. n. 4/2019 convertito in L. n. 26/2019 istituì il Reddito di Cittadinanza, lo presentò come una misura fondamentale di politica attiva del lavoro, “a garanzia del diritto al lavoro” ma anche finalizzata “a contrastare la povertà, la diseguaglianza e l'esclusione sociale nonché a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all'inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro” (art. 1); ne previde, come condizione di erogabilità, l’obbligo per i beneficiari di sottoscrivere un Patto per il lavoro (consistente nella dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte dei componenti il nucleo familiare maggiorenni) o un Patto per l'inclusione sociale (per contrastare emarginazione economica e sociale nei casi di bisogni più complessi) tendenti al reinserimento lavorativo e sociale; ne stabilì i requisiti necessari ad accedervi, sia di cittadinanza, residenza e soggiorno, sia reddituali e patrimoniali.

Il tutto al fine di impedire che risorse destinate a soggetti socialmente emarginati potessero finire in mano a chi non ne avesse diritto.

Insomma, l’intero impianto della norma si basava su un presupposto “romantico”: l’onestà.

Essa si traduceva nel dovere – da parte dei futuri beneficiari della misura - di rendere attestazioni e dichiarazioni veritiere, o, all’inverso, di non omettere informazioni che altrimenti avrebbero precluso l’accesso al beneficio.

Ma, come si suol dire, ‘fatta la legge trovato l’ingannò e perciò, ferme restando le buone intenzioni del legislatore, è accaduto che una considerevole parte della popolazione inoccupata, evidentemente più affascinata dalla pratica dell’espediente che non da quella del rimboccarsi le maniche, ha finito per leggere in maniera del tutto alternativa le opportunità offerte dall’intervento normativo, così reinterpretandolo: adagiarsi sul reddito di cittadinanza ove risulti più vantaggioso di una Naspi o di un salario minimo; oppure giocare sporco – anzi, “nero” – omettendo di dichiarare prestazioni lavorative effettivamente svolte, anche se in maniera discontinua, così da continuare a percepire quel “sussidio di Stato”.

Parto da questa premessa per soffermarmi su un rapido commento ad una recente sentenza della Cassazione penale, la n. 25306/2022, che ha trattato proprio dell’aspetto omissivo appena sopra accennato, riconducendo al reato di cui all'art. 7, comma 2, della citata L. n. 26/2019 di conversione del D.L. n. 4/2019 la condotta di chi, pur percependo il reddito di cittadinanza, ha omesso di comunicare all'Inps lo svolgimento di un'attività lavorativa retribuita.

La Suprema Corte ha infatti rigettato il ricorso proposto da un soggetto avverso la sentenza d’appello che, per tale omissione, l’aveva condannato alla reclusione di un anno e otto mesi (pena poi ridotta a un anno un mese e 10 giorni).

L’imputato, in sede d’appello, a sua discolpa aveva precisato che in realtà per l’occupazione non dichiarata non percepiva una retribuzione vera e propria poiché l’attività lavorativa era svolta gratuitamente e il datore gli riconosceva solo, a titolo di compenso, regalie saltuarie.

La Cassazione, nel dichiarare infondato il ricorso, ha riconosciuto idonee le motivazioni della decisione d’appello in quanto fondate sulla applicazione corretta della comune regola di esperienza secondo la quale "l'attività lavorativa, anche se irregolare, viene retribuita, oltre che di quanto riconosciuto dallo stesso datore di lavoro del ricorrente, che, sia pure qualificandoli come "regalie" corrisposte in "occasioni particolari", ha riconosciuto la corresponsione di compensi (…) per l'attività lavorativa svolta nel suo interesse” cosicché la retribuzione avrebbe dovuto essere comunicata all'Inps.

Vado però anche un po’ oltre, per riagganciarmi ad altre due vicende reali che tendono a porsi in antitesi tra loro e, al tempo stesso, mentre l’una si colloca sulla medesima linea della condotta analizzata dalla sentenza sopra riportata, evidenziando l’opportunismo che spesso si cela a monte delle richieste di reddito di cittadinanza, l’altra sconfessa invece le buone intenzioni del legislatore laddove si dicono improntate a criteri di inserimento lavorativo ed inclusione sociale.

La prima riguarda la sorte di un chiosco di caffè in piazza Aldrovandi a Bologna, costretto a chiudere per mancanza di personale. Nonostante l’offerta di contratto a tempo indeterminato con stipendio di 1300-1400 euro al mese per 6,5 ore al giorno, sei giorni a settimana, weekend inclusi, nessuno si è presentato. “Colpa del reddito di cittadinanza”, accusano i titolari, che sostengono che ci sia disinteresse nei confronti del lavoro e che chi percepisce reddito di cittadinanza o la disoccupazione preferisce tenersi quelli; e azzardano: “Forse è il Covid che ha abituato la gente ad accontentarsi, a ricevere sussidi”.

La seconda è la storia di Michele, trentenne di Verona, affetto dalla nascita da tetraparesi distonica, una malattia cerebrale che ha compromesso la sua mobilità.

Michele ha tre lauree, pratica il rugby in carrozzina, fa fisioterapia e studia tuttora per un progetto di dottorato sul Parkinson da presentare all'università di Verona. Sua madre lo definisce un ragazzo attivo e propositivo, tanto che spesso fatica a stargli dietro.

Tra i desideri per il futuro di Michele c’è quello di avere un lavoro, che oggi fatica a trovare poiché inevitabilmente ogni proposta naufraga di fronte alla sua carrozzina: difatti è principalmente a quella che si continua a guardare anziché al suo curriculum.

Di fronte a tali evidenze mi si conceda allora di sintetizzare così la conclusione: forse è il concetto stesso di “bisogno” che per primo andrebbe rivisto, per evitare che ciò che nasce come opportunità finisca per trasformarsi in opportunismo o ceda di fronte a condizioni che continuano ad essere discriminanti.
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