12 luglio 2021

Responsabilità penale dei sanitari: solo nei casi di imperizia

Autore: Barbara Garbelli
La pandemia da Covid-19 e lo scudo penale introdotto dalla normativa vigente per i sanitari riapre un dibattito importante: fino a dove arriva la responsabilità penale dei sanitari? E come si configura?

La legge n. 24/2017, meglio conosciuta come Legge Gelli-Bianco, recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” è entrata in vigore il 1° aprile 2017 ed ha come tema centrale la responsabilità medica.

A poco più di quattro anni dall’entrata in vigore, la norma ha avuto il pregio di imprimere una svolta, culturale prima che giuridica, ponendo un freno agli atteggiamenti inquisitori spesso mostrati in precedenza dalla giurisprudenza.

La Legge esclude la punibilità per i reati di omicidio e lesioni personali colposi commessi da esercenti professioni sanitarie quando:
  • l’evento si sia verificato a causa di imperizia (e non anche di imprudenza o negligenza);
  • siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida - come definite e pubblicate ai sensi di legge ossia elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito, regolamentato e aggiornato con cadenza biennale tramite decreto del ministro della Salute - o, in mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali;
  • le raccomandazioni contenute nelle linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

Tali disposizioni sono contenute nell’articolo 590-sexies del Codice penale, introdotto dalla legge Gelli-Bianco. In precedenza era in vigore la cosiddetta riforma Balduzzi (articolo 3 del DL 158/2012).

La novità introdotta dalla Legge Gelli-Bianco è che ora da un lato, l’esenzione si riferisce ai soli casi di imperizia e non a quelli di imprudenza o negligenza e, dall’altro, non si distingue più tra colpa lieve e colpa grave.

In sostanza, la punibilità sarebbe esclusa per condotte imperite del medico, ma non per quelle riconducibili a disattenzione o atteggiamento tecnico imprudente, in cui sia stata correttamente diagnosticata la patologia e selezionate le linee guida (accreditate) riferibili alla terapia specifica per quella patologia e il caso concreto non abbia caratteristiche tali da costituire eccezione alla regola data.

La responsabilità resta in caso di imperizia, da misurare a priori, a seguito di cattiva valutazione delle condizioni cliniche del paziente che avrebbero dovuto indurre il medico a ritenere inadeguate le linee guida e quindi a non applicarle.

Le Sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 8770/2018 hanno però reintrodotto, nei casi d’imperizia, una gradazione della colpa.

Così il sanitario risponde:
  • per imperizia sia grave sia lieve, quando siano state individuate erroneamente linee guida o buone pratiche inadeguate alle specificità del caso concreto (la culpa in eligendo), richiamando l’obbligo del medico di disattenderle qualora le peculiarità del caso rendano ciò necessario;
  • per imperizia grave o lieve nell’ipotesi di errore esecutivo, qualora il caso concreto non sia regolato da linee-guida o buone pratiche;
  • solo per imperizia grave se l’errore nell’esecuzione sia accompagnato dalla corretta scelta e dal rispetto di linee guida o buone pratiche, adeguate al caso concreto, tenuto conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico (la culpa in faciendo).

Il grado della colpa va valutato alla stregua di molteplici indici, tra cui:
  1. natura della regola cautelare violata (se rigida o elastica);
  2. misura di deviazione della condotta rispetto al comportamento alternativo lecito o alle necessità di adeguamento alle peculiarità del caso;
  3. grado di riconoscibilità della situazione di rischio e conseguentemente la misura di prevedibilità ed evitabilità dell’evento lesivo (contano l’eventuale oscurità o equivocità del quadro clinico e il grado di urgenza dell’intervento);
  4. condizione personale dell’agente, inclusa la sua specializzazione;
  5. possesso di qualità personali utili a fronteggiare la situazione pericolosa;
  6. motivazioni della condotta.
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