Di storie di maltrattamenti ai danni di ospiti anziani ricoverati in ospedali o apposite strutture si sente parlare da tempo. Nelle case di riposo o nelle case-famiglia, specialmente, è capitato spesso che gli anziani siano stati confinati nelle loro stanze, abbandonati a se stessi, umiliati con aggressioni fisiche ed espressioni offensive, privati persino del cibo o lasciati sporchi per giorni se non autosufficienti.
Una situazione che forse la pandemia ha contribuito ad inasprire, per via delle condizioni di stress in cui il personale di quelle strutture si è trovato a dover operare.
Tuttavia, nessuna condizione di fatica, ragione caratteriale o atteggiamento può valere a giustificare tali condotte e a renderle ammissibili.
Ed è quanto ha ribadito la Cassazione con la recente sentenza n. 25116/2021, con la quale ha riconosciuto sussistere il reato di maltrattamenti a carico dell’infermiera brusca e frettolosa che, con coscienza e volontà, persiste nel tenere una condotta vessatoria verso le pazienti anziane.
La vicenda ha preso il via dalla condanna inflitta in primo grado dal Tribunale di Ivrea ad una infermiera imputata, appunto, per il delitto di cui all'art. 572 c.p, rubricato “Maltrattamenti contro familiari e conviventi” che, al primo comma, prevede che “Chiunque (…) maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.”
La condanna era stata successivamente confermata anche dalla Corte di Appello di Torino.
Contro quest’ultima pronuncia l’imputata aveva pertanto presentato ricorso in Cassazione, adducendo come argomentazione la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in relazione alla sussistenza degli elementi soggettivi e oggettivi del reato contestato.
Erronea sarebbe stata – secondo quanto rilevato dalla ricorrente - la valutazione delle risultanze istruttorie, perché in contrasto con le deposizioni dei testimoni. La Corte d’Appello avrebbe infatti confuso il modo di fare brusco dell'imputata con la volontà della stessa di arrecare sofferenze e umiliazioni alla persona offesa, ospite non autosufficiente di una struttura ospedaliera.
Sempre secondo la ricorrente, sarebbe mancata, a riguardo, un'indagine finalizzata ad accertarne la sussistenza del dolo, ossia la coscienza e volontà nel compiere atti vessatori e nel voler maltrattare con angherie e soprusi continui i pazienti della struttura. Viceversa la condotta che le è stata contestata avrebbe trovato spiegazione solo nella natura “frettolosa” del proprio agire nell'assolvere i propri compiti di cura nei confronti dei pazienti.
La Cassazione ha però ritenuto il ricorso inammissibile, rigettandolo per manifesta infondatezza.
Secondo la Suprema Corte, infatti, dall’ampia motivazione della sentenza impugnata emerge anzitutto che la Corte d'Appello ha esaminato in modo molto approfondito le dichiarazioni dei testimoni, dalle quali ha tratto il convincimento che l'imputata ricorreva sistematicamente a gestualità violente e non necessarie nell'assistere l'anziana persona offesa, come desumibile anche dall'atteggiamento sempre intimorito della vittima.
L’infermiera era solita scagliarsi contro le ospiti della struttura usando ripetutamente espressioni gratuitamente aggressive e offensive non compatibili affatto né con la tesi – dalla stessa sostenuta – della mera "assuefazione alla gestualità brusca" né con quella secondo cui ella non sarebbe stata consapevole di arrecare con i suoi atteggiamenti sofferenze fisiche e psicologiche alle degenti. Viceversa, anzi, l’imputata aveva sempre difeso il suo modo di agire (manovre violente e rapide sui corpi delle anziane degenti, frasi mortificanti quando le stesse non riuscendo a trattenersi defecavano nel letto, minacce di colpirle, ecc.) con le allieve dell'agenzia di formazione ed era già stata in passato redarguita dalla caposala proprio a seguito delle lamentele dei pazienti.
Per la Cassazione, dunque, il fare brusco e frettoloso tipico della condotta dell'infermiera non priva i suoi gesti dell'idoneità causale necessaria a configurare il reato di maltrattamenti. A rilevare infatti è l'insieme delle condotte idonee a cagionare profonda sofferenza e prevaricazione nei confronti della vittima. Il modo di fare “brusco” e “frettoloso” dell'infermiera si è infatti tradotto in un regime di cura caratterizzato da abituale prevaricazione e profonda insofferenza nei confronti delle pazienti anziane.
È dunque corretta l’applicazione, da parte della Corte d’Appello, del principio di diritto già enunciato dalla stessa Cassazione in virtù del quale "anche la situazione derivante da un clima instaurato all'interno di una comunità, in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere di soggetti attivi, integri l'abitualità della condotta di cui all'art. 572 cod. pen."
Anche con riferimento all’elemento soggettivo del reato – sempre secondo gli Ermellini - la Corte d’Appello ha correttamente ritenuto che il dolo nei maltrattamenti non richiede la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti che cagionino sofferenze fisiche e morali alla vittima, bastando, viceversa, solo la coscienza e la volontà di persistere nel tenere una condotta vessatoria e lesiva della personalità della vittima.
In altre parole, “non occorre che l’agente deliberi una volta per tutte di imporre ai soggetti deboli affidati alla sua cura un penoso regime di vita e concepisca unitariamente le proprie condotte in senso strumentale alla realizzazione di quell’obiettivo, essendo piuttosto sufficiente che le condotte vessatorie siano tenute nella consapevolezza del loro carattere ripetuto e della loro idoneità a creare una stabile e dolorosa patologia della vita familiare. Con la conseguenza che l’avere ricavato il dolo generico dalla natura dei comportamenti emersi vale da sé ad evidenziare la piena consapevolezza di sottoporre la vittima a mortificazioni e patimenti morali ma anche fisici, tali da rendere dolorose ed avvilenti le condizioni di vita”.
In sostanza, dunque, alla luce di questa sentenza, anche se non c’è una reale volontà di infliggere una sofferenza alle persone ricoverate, è evidentemente incompatibile con l’esercizio delle professioni sanitarie una condotta che lasci trasparire insofferenza verso i pazienti destinati alle proprie cure e, pertanto, basta poco che da questo si passi ad un’accusa di maltrattamenti.
È bene che lo si tenga a mente.