Non si tratta di una trovata di nuova generazione; è anzi un rito arcaico, un “segno di rispetto” che negli ultimi anni è tornato alla ribalta, facendosi prepotentemente notare e destando spesso il clamore mediatico: si tratta dell’”inchino” che il santo patrono della città o del paese, portato in processione, compie sotto l’abitazione del principale boss locale o della sua famiglia.
Un gesto che la magistratura non vede di buon occhio e che ne ha dunque ispirato diverse pronunce, da ultimo la sentenza n. 2242/2022 con cui la terza Sez. Penale della Corte di Cassazione ha confermato la riconducibilità dell’inchino alla fattispecie contemplata dall'articolo 405 c.p., che punisce il "Turbamento di funzioni religiose del culto di una confessione religiosa" (c.d. Turbatio Sacrorum) con la reclusione sino a due anni e colpisce “chiunque impedisce o turba l'esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto di una confessione religiosa, le quali si compiano con l'assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico”.
L’episodio specifico – che risale al 2016 - si riferisce alla sosta che, su indicazione del capo vara (figura deputata dal parroco o dal comitato dei festeggiamenti a dare indicazioni sui movimenti del fercolo - o vara -, cioè la portantina o l’impalcatura sulla quale poggia la statua del santo) le statue dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista (elemento non casuale, trattandosi di martiri distintisi in vita per il loro rifiuto di compiacere i potenti dell’epoca), nel corso della processione, avevano effettuato davanti alla casa della famiglia Riina-Bagarella, a Corleone.
Già in primo grado il Tribunale di Termini Imerese e poi anche la Corte d’Appello di Palermo avevano condannato il capo vara (che era tra l’altro imparentato con la famiglia Bagarella) irrogandogli la pena di sei mesi di reclusione.
La Cassazione, nel respingere il ricorso presentato contro la pronuncia di secondo grado, così confermando la condanna, si è soffermata sull’assunto che la condotta punita non vada giudicata soltanto in se e per sé, come atto d’ossequio verso una consorteria criminale, ma abbia una portata lesiva più ampia, che investe il bene giuridico del sentimento religioso ed interessa pertanto l’intera comunità dei credenti.
Secondo il primo giudice, l'imputato aveva effettivamente turbato il regolare svolgimento della processione, fermando per ben due volte il fercolo in corrispondenza dell'abitazione dei boss, “alterandone il normale iter temporale e formale, alla presenza di un ministro di culto impegnato nella stessa e della Forze dell'Ordine, che si determinavano ad abbandonare subitamente quella che non era più l'iniziale manifestazione della devozione popolare in onore di un Santo, ma manifestazione di riaffermazione della influenza di una famiglia sul territorio, cui pure il simulacro del Santo doveva tributare rispetto".
Richiamando tale conclusione, la Cassazione ha anzitutto ribadito che “il reato di "turbatio sacrorum" di cui all'articolo 405 c.p., può essere perfezionato da due condotte antigiuridiche: l'impedimento della funzione, consistente nell'ostacolare l'inizio o l'esercizio della stessa fino a determinarne la cessazione; oppure la turbativa della funzione stessa, che si verifica quando il suo svolgimento non avviene in modo regolare”. Nel caso di specie l’episodio va inquadrato nella seconda modalità in quanto la processione “avendo la finalità di esaltare il sentimento religioso e di rendere omaggio anche fuori dal tempio alla divinità, alla Madonna ed ai Santi, costituisce una pratica religiosa tutelata dall'articolo 405 c.p.”.
Ciò posto, la Suprema Corte ha rilevato che, superando la valutazione esclusivamente materiale della bipartizione tra ”impedimento“ e “turbativa” come declinata dall’articolo 405 c.p., “ciò che viene in rilievo è la dimensione "spirituale" del bene protetto la cui tutela non consiste tanto (e solo) nell'assicurare la materiale regolarità della funzione religiosa, quanto anche nell'impedire che essa possa essere dissolta, utilizzata per scopi che offendono o sono in contrasto con la sensibilità religiosa dei fedeli che vi partecipano e con i valori espressi dalla fede professata. Il "sentimento religioso", a vario modo tutelato dalle norme contenute nel Capo Primo del Titolo IV del Libro Secondo del codice penale, pur avendo una dimensione individuale ed intima, ha una sua proiezione necessariamente materiale perché si manifesta attraverso le persone (articolo 403 c.p.), cose (articolo 404 c.p.) e funzioni (articolo 405 c.p.) con le quali e mediante le quali ciascun individuo (o collettività di persone) ha modo di testimoniare la propria fede, il proprio credo religioso, di alimentarlo, di coltivarlo, di viverlo. E così, la "res" oggetto di culto non rileva quale cosa che ha un interesse patrimoniale, bensì quale cosa che ha un valore simbolico-evocativo o che è strumentale all'esercizio del culto; il suo vilipendio o danneggiamento non lede tanto (o solo) il patrimonio quanto, soprattutto, il sentimento religioso della collettività dei fedeli (articolo 404 c.p.). Allo stesso modo, il vilipendio del ministro di culto o della persona che lo professa, non offende la dignità dell'offeso, ma la proiezione religiosa della sua persona (articolo 403 c.p.). In rilevo: l'offesa al sentimento religioso costituisce il criterio selettivo che, a fronte della identità materiale di condotte altrimenti punibili in base ad altre norme dello stesso codice penale, qualifica la condotta dell'agente.”
In considerazione di tanto, l’inchino di un santo di fronte a qualsiasi abitazione va considerato un atto offensivo della pratica religiosa cristiana-cattolica, poiché contrasta con la venerazione di un santo (e della divinità in generale) la pur simbolica “prostrazione” davanti a un essere umano, tanto più se si tratta di un boss mafioso, responsabile di delitti efferati; nel qual caso l’inchino davanti alla sua abitazione avrebbe anche la valenza di un asservimento della religione a un sistema di violenza, corruzione, sopraffazione, illegalità e di attentato ai valori essenziali della vita di una società.
Conclude perciò la Corte: “in tale contesto (…) rileva la materialità del gesto che, interpretato dalla Corte di appello, con motivazione tutt'altro che illogica, come ossequio ad un esponente di spicco della criminalità mafiosa, ha strumentalizzato una processione religiosa a fini del tutto contrari al sentimento di coloro che vi partecipavano e comunque ai valori universalmente espressi e riconosciuti dalla religione cattolica, sovvertendoli completamente e integrando a tutti gli effetti il reato contestato.”
E a fronte della contestata circostanza che le statue si sarebbero solo fermate ma non avrebbero compiuto anche la “manovra” dell’inchino vera e propria, precisa: “la processione si è fermata per rendere omaggio alla abitazione di uno storico capo-mafia e, dunque, al capo-mafia stesso. Il fatto che non sia stato effettuato il cd. "inchino" costituisce una mera variabile che non escluse, in sua assenza, la materialità del fatto: l'inchino, semmai, l'avrebbe solo reso più grave.”