Solo poche settimane fa si è tenuto in Egitto, a Sharm el-Sheikh, il vertice Cop27 dell'Onu, la conferenza sul clima nella quale si erano riposte grandi speranze per la salute del pianeta. Per ammissione dello stesso Segretario ONU in carica, Antonio Guterres, l’incontro ha di poco sfiorato il completo fallimento.
L’attesa era per un’azione decisa sul fronte della riduzione delle emissioni di gas serra per contrastare i danni causati dal cambiamento climatico, ma di concreto c’è stato ben poco: soltanto una ripetizione (con un’estensione a Francia e Spagna, che in prima battuta non vi avevano aderito) di quanto già concluso al precedente vertice Cop26 di Glasgow del 2021, con l’impegno di oltre 200 Paesi, regioni e produttori ad accelerare (il piano si chiama, difatti "Accelerating to Zero (A2Z)") verso un trasporto a zero emissioni, eliminando la vendita di auto e furgoni con i motori a combustione a partire dal 2035. Peccato che da tale accordo siano rimasti ancora fuori gli altri grandi produttori di automobili del mondo, tra cui Cina, Stati Uniti, Giappone, India, Corea del Sud e Germania.
Unico reale traguardo è stato la sigla dell’accordo - che in molti hanno definito "storico" - sull’impiego del fondo 'loss and damage' da destinare dai Paesi più poveri (che sono anche quelli meno inquinanti) a compensazione dei danni, già subiti, causati dal cambiamento climatico.
Nuove attese si sono perciò rivolte al successivo vertice, la COP15 sulla Diversità Biologica appena conclusosi in Canada.
La prima di tali Conferenze si è tenuta nel 1995 a seguito della firma della Convenzione ONU sul climate change (UNFCCC) avvenuta al Summit della Terra a Rio de Janeiro nel 1992 e che consiste in un trattato internazionale sulla conservazione della biodiversità, l’uso sostenibile della biodiversità e l’equa condivisione dei benefici delle risorse naturali. Ed è stata anche la prima Convenzione internazionale ad occuparsi del riscaldamento globale.
Il perché delle attese è stato stavolta motivato da un’ulteriore esigenza: un effettivo passo in avanti rispetto allo stallo dell’ultimo ventennio, giacché poche azioni concrete avevano fatto seguito a 21 obiettivi chiave concordati nel 2002, amplificati con l’attuazione del Protocollo di Kyoto (che, benché sottoscritto nel 1997 durante la COP3, è entrato in vigore solo nel 2005) e ripetuti pedissequamente durante la COP16 del 2010, ove ci si era prefisso tra l’altro di tagliare le emissioni di gas serra dal 20% al 40% entro il 2020.
La svolta è alfine giunta. A Montreal le delegazioni dei 196 Paesi partecipanti alla COP15 hanno siglato un accordo importantissimo che è stato definito una sorta di “patto di pace con la natura” che mira a raggiungere il traguardo di proteggere il 30% del pianeta (aree terrestri, acque interne e zone costiere e marine) entro il 2030, contando su uno stanziamento di 20 miliardi di dollari l’anno entro il 2025 e 30 entro il 2030.
Considerato che ad oggi sono protetti il 17% delle terre emerse e l’8% dei mari, l’obiettivo – come tracciato - dell’innalzamento della percentuale tende a scongiurare la perdita di aree di grande importanza per la biodiversità. È dunque diretto non solo ad aree indicate come riserve naturali ma si rivolge anche al ripristino della biodiversità in aree urbane degradate o sfruttate per l’agricoltura. Il tutto nel rispetto dei diritti e della capacità decisionale delle popolazioni indigene, che rappresentano solo il 5% della popolazione mondiale ma tutelano l’80% della biodiversità.
In tale direzione, l’accordo prosegue con la previsione di una riduzione dei rischi e degli impatti negativi dell’inquinamento da tutte le fonti a livelli non dannosi per la biodiversità. Per far ciò i Paesi aderenti al patto devono ridurre di almeno la metà il rischio complessivo derivante dai pesticidi e dalle sostanze chimiche altamente pericolose anche attraverso il controllo dei parassiti, tenendo conto della sicurezza alimentare e dei mezzi di sussistenza.
Essi devono inoltre impegnarsi a ridurre l’eliminazione dell’inquinamento da plastica; a porre in essere azioni per la conservazione di specie in via di estinzione; a ridurre al minimo l’impatto dei cambiamenti climatici; a contrastare la diffusione di specie aliene; a dimezzare lo spreco alimentare globale; a ridurre in modo significativo l’iperconsumo nonché la produzione di rifiuti. Al tempo stesso si sono assunti la responsabilità di ridurre i sussidi ritenuti dannosi per la natura di almeno 500 miliardi entro il 2030.
A ben guardare non si tratta di obiettivi nuovi rispetto agli accordi passati; ciò che invece costituisce una novità è che per il loro raggiungimento i Paesi firmatari hanno adottato un meccanismo comune di pianificazione e monitoraggio, attraverso dei precisi indicatori che consentiranno la possibile revisione delle strategie ove gli interventi posti in essere risultassero poco efficaci.
L’intento è di non replicare il fallimento del già citato precedente accordo del 2010: in quell’occasione, infatti, quasi nessuno degli obiettivi da realizzarsi entro il 2020 è stato raggiunto.
A chi si chiedesse quale sia il nesso tra emergenza climatica e tutela della biodiversità - e, dunque, tra il lavoro della Conferenza sul clima e quella sulla diversità biologia – la risposta è presto data: crisi climatica e collasso della biodiversità sono crisi gemelle e le ripercussioni dell’una sull’altra sono vicendevoli. Il surriscaldamento accelera la perdita di specie naturali ed essa, a sua volta, mette a repentaglio la possibilità di mantenere quel limite massimo di 1,5 gradi del riscaldamento globale che consentirebbe la sopravvivenza del pianeta.
Il destino dell’umanità e quello della natura sono, insomma, inscindibili ed è su questa consapevolezza che bisognerebbe addestrare le coscienze, affinché si diventi tutti più sensibili al rischio che la nostra casa-pianeta corre, e si agisca, di conseguenza, ognuno per la propria parte, nel contrastare ciò che altrimenti diventerà un’inarrestabile rovina.