10 ottobre 2020

Vajont, 9 ottobre 1963

Autore: Redazione Fiscal Focus
“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.”

Con queste parole, ormai passate alla storia, Dino Buzzati, con un tocco delicato ma incisivo, descriveva sul Corriere della Sera dell’11 ottobre 1963 la dinamica di una tragedia che due giorni prima era costata la vita a circa duemila persone.

È la sera del 9 ottobre 1963, un mercoledì. In tv c’è la partita di ritorno del primo turno di Coppa dei Campioni tra Real Madrid e Glasgow Rangers.

A Longarone, in molti, tra cui tanti lavoratori della SADE - l’azienda elettrica privata che da poco ha ultimato la costruzione del bacino idroelettrico della Diga del Vajont, una delle opere di ingegneria più imponenti mai fino ad allora realizzate – si sono fermati a bar a guardare le ‘Merengues’, perché le televisioni in casa ce ne sono ancora pochissime.

I più anziani ed i bambini invece sono già andati a letto.

Alle 22.39 improvvisamente va via la luce e s’ode un rombo spaventoso: dal Monte Toc - che in friulano vuol dire “marcio” - una frana, già da anni in movimento e ora appesantita dalla pressione dell'acqua convogliata dalla diga, non riesce più a reggersi sulle pareti: 260 milioni di metri cubi di roccia si staccano e precipitano nel bacino.

La forza d'urto della massa franata crea due ondate. Una, a monte, si dirige verso il centro della vallata del Vajont, spazzando via le frazioni che si trovano lungo le rive del lago: Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino.

L’altra, con onde di 100 metri di altezza, rompe la parte sommitale della diga, abbatte la palazzina della centrale di controllo ed il cantiere degli operai e si riversa, ad una velocità di oltre novanta chilometri orari, nella valle sottostante, su Longarone, Erto, Casso e altri comuni vicini.
Allo sbocco della valle l'onda è alta 70 metri e genera un vento fortissimo; la gente non ha il tempo di fare nulla: case, chiese, alberghi, osterie, piazze e strade vengono travolte dall’acqua e sradicate dalle fondamenta. Solo un campanile resiste, dritto, mentre tutt’intorno rimangono fango e macerie.

All’alba, quando la luce torna a rischiarare ogni cosa, il disastro e la devastazione appaiono agli occhi dei sopravvissuti in tutta la loro entità.
1914 sono le vittime, di cui solo 750 vengono identificate: alcune non saranno mai riconosciute, altre mai più ritrovate.

“La fantasia della natura è stata più grande ed asciutta che la fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alle spalle. Si direbbe quasi che in tutte le grandi conquiste tecniche, stia nascosta una lama segreta e invisibile che a un momento dato scatterà” così scriveva ancora Buzzati, convinto – come tanti – che non ci fossero stati errori nella costruzione della diga e nei calcoli ingegneristici: “Non è che si sia rotto il bicchiere quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l'ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d'arte, testimonianza della tenacia, del talento, e del coraggio umano.”

La realtà è tutt’altra.

Quella gigantesca diga, pensata già dal 1926, poi realizzata a distanza di trent’anni - tra il 1957 e il 1960 – su progetto dell’ingegner Carlo Semenza, era stata un azzardo.

Quelli erano gli anni del ‘miracolo economico’; tanti cantieri venivano aperti, con ampi contributi pubblici, dando lavoro a molte persone. L’economia italiana era in rapida espansione, e le città del nord, sempre più popolate, avevano bisogno di energia elettrica. La SADE, puntando ai contributi pubblici, era scesa in campo a gestire quell’ambizioso progetto, addirittura ampliandolo rispetto a quello originale: la diga sarebbe diventata la più alta del mondo (266 metri di altezza, 723 sopra il livello del mare).

Venne perciò tenuto nascosto che le caratteristiche morfologiche dei versanti del monte fossero inadatte a contenere un serbatoio d’acqua di quella portata (168,715 milioni di metri cubi). E accadde così che, con le infiltrazioni delle acque del lago artificiale creato dalla diga, si andò a modificare un equilibrio delicato della montagna, aumentando l’instabilità di quei versanti, già fragili e interessati da secoli di eventi franosi.

Gli abitanti di Erto e Casso, molti dei quali possedevano pascoli e terre che sarebbero stati espropriati per fare posto al lago artificiale, avevano sin da subito manifestato la loro preoccupazione per la costruzione di quel gigante sul loro monte marcio. Una leggenda locale narrava che Erto, dopo un periodo di prosperità, sarebbe sparita negli abissi di un lago.

Ma, al di là della suggestione della leggenda, i segni ed i rumori di una frana imminente c’erano davvero. “Si era dunque nel giusto quando, raccogliendo le preoccupazioni della popolazione, si denunciava l'esistenza di un sicuro pericolo costituito dalla formazione del lago. E il pericolo diventa sempre più incombente. Sul luogo della frana il terreno continua a cedere, si sente un impressionante rumore di terra e sassi che continuano a precipitare. E le larghe fenditure sul terreno che abbracciano una superficie di interi chilometri non possono rendere certo tranquilli.”: così scriveva Tina Merlin, giornalista de l’Unità, che raccolse le preoccupazioni di quella gente e denunciò lo strapotere della SADE finendo per questo con l’essere accusata dall’azienda di "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico" tramite i suoi articoli.

Dopo quella tragedia, i sopravvissuti sono rimasti per anni in silenzio, preferendo lenire le ferite delle loro perdite con l’oblio, dimenticando e facendosi dimenticare. Finché nel 1993, a trent’anni dall’accaduto, Marco Paolini, con un monologo teatrale di due ore e mezza – un’”orazione civile”, come l’ha chiamata – ha deciso di ricostruire, con dovizia di particolari, le origini, la storia e le conseguenze di quel dramma, risvegliando in tanti che avevano scelto di sparire il bisogno di raccontarsi, di tornare in quei luoghi scomparsi per ritrovare le loro radici, di conservare la memoria.

Che la diga fosse un’opera straordinaria e perfetta però è vero: mentre tutto intorno periva e veniva spazzato via, quel gigante resisteva, immenso, imponente.

E ancora oggi è lì, senz’acqua ma integro, straordinario monumento alla stupidità umana.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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