20 settembre 2018

Antieconomicità a prova di contribuente

Autore: Gianfranco Antico
La contestazione dell’antieconomicità da parte del Fisco impone al contribuente di contrastarla. Sono queste le conclusioni cui è giunta sostanzialmente la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 21859 del 7 settembre 2018.

Nel caso in questione, veniva recuperato a tassazione un costo di quasi 300 milioni di vecchie lire, in relazione ad una fattura relativa ad assunte operazioni fittizie per prestazioni (di tenuta della contabilità elettronica) rese da una s.a.s. per un importo di gran lunga superiore rispetto a quello praticato per prestazioni similari rese in favore di altre società del gruppo.

Avverso l'avviso di accertamento, la società aveva proposto ricorso alla CTP che lo aveva accolto, facendo proprie le conclusioni di una perizia in ordine alla congruità degli importi fatturati.

Avverso la sentenza della CTP, aveva proposto appello l'Ufficio deducendo la incongruità dell'importo fatturato rispetto ai servizi svolti, l'appartenenza della società contribuente e di quella fatturante allo stesso "gruppo societario" e il risparmio fiscale conseguito da quest'ultimo nel suo complesso nonché dai singoli soci. Appello che non trovava accoglimento.

La Corte di Cassazione, adita dalle Entrate, ha ribadito che nel giudizio tributario, “una volta contestata dall'Erario l'antieconomicità di una operazione posta in essere dal contribuente che sia imprenditore commerciale, perché basata su contabilità complessivamente inattendibile in quanto contrastante con i criteri di ragionevolezza, diviene onere del contribuente stesso dimostrare la liceità fiscale della suddetta operazione ed il giudice tributario non può, al riguardo, limitarsi a constatare la regolarità della documentazione cartacea (Cass. n. 2484 del 2011, tra le medesime parti, in relazione a questione similare; Cass. n. 7144 del 2007). Infatti, è consentito al fisco dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere minori costi, utilizzando presunzioni semplici e obiettivi parametri di riferimento, con conseguente spostamento dell'onere della prova a carico del contribuente, che deve dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate a fronte della contestata antieconomicità (Cass., n. 25257 del 2017; Cass., n. 14941 del 2013)”.

Anche con riguardo all'Iva, osserva la Corte, “l'antieconomicità può costituire indubbiamente un indice dell'inesistenza delle operazioni”.

Applicando i superiori principi al caso di specie, la Corte ritiene che “il giudice di appello ha totalmente pretermesso l'esame di un compendio di elementi offerti dall'Agenzia a sostegno del carattere fittizio della fatturazione, i quali avrebbero avuto incidenza decisiva ai fini delle valutazioni alle quali il giudice di appello era tenuto”: l'appartenenza della società contribuente al medesimo gruppo societario a base familiare; l'eccessivo importo fatturato rispetto a quello per prestazioni analoghe svolte dalla medesima fatturante a favore di società dello stesso gruppo; la dotazione da parte della società fatturante di soli due dipendenti; la eccessività dell'importo fatturato rispetto alla tipologia di attività espletata, la convenienza in termini fiscali della sovrafatturazione sia per la società contribuente che per il gruppo M.

Nel caso concreto, secondo la Corte, “l'Ufficio ha utilizzato presunzioni dirette a dimostrare l'irragionevolezza delle operazioni relative ai suddetti costi, secondo parametri oggettivi, mentre il contribuente non ha assolto l'onere probatorio afferente alla liceità delle stesse operazioni”.

In senso confermativo all’odierno pronunciamento segnaliamo la sentenza della Corte di Cassazione n. 1839 del 29 gennaio 2014 (“una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità di un comportamento posto in essere dal contribuente, poiché assolutamente contrario ai canoni dell’economia aziendale, incombe su quest’ultimo l’onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni”) e l’ordinanza, sempre della Cassazione, n. 9716 del 6 maggio 2014 ("in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell'economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo […] il giudice di merito, per poter annullare l'accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l'antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie (Cass. n. 10802/2002, n. 1821/2001)").

Ancora, merita di essere evidenziata sulla questione la sentenza della Cassazione n. 6972/2015: Il rilievo esaminato dalla Suprema Corte investe un costo per servizi di contabilità del tutto spropositato (264.000.000 del vecchio conio) rispetto ai valori normali di mercato (ex art. 9, del T.U. n. 917/86), ovverosia ai corrispettivi praticati da un qualsiasi consulente contabile nel medesimo periodo, il cui ammontare, nell'anno 1999, si aggirava tra i 12.000.000 ed i 30.000.000 di vecchie lire. Inoltre, il servizio contabile in questione, piuttosto che essere svolto dalla società emittente la fattura, risulta, in sostanza, svolto dalla stessa società che ha contabilizzato il costo, mediante una propria dipendente (come risulta dalle dichiarazioni a verbale). Per la Corte Suprema, “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, invero, l'onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d'impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina di cui al D.P.R. n. 597 del 1973, che del D.P.R. n. 917 del 1986, incombe al contribuente. Quest'ultimo è, peraltro, tenuto altresì a dimostrare la coerenza economica dei costi sostenuti nell'attività d'impresa, ove - come nel caso di specie - sia contestata dall'Amministrazione finanziaria anche la congruità dei dati relativi a costi e ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, in difetto di tale prova essendo legittima la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all'oggetto dell'impresa” (cfr. Cass. 4454/10; 26480/10; 7701/13). Anche ai fini Iva, il diritto alla detrazione, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di appello, è stato disconosciuto alla contribuente, una volta constatato - come affermato dalla stessa CTR – “il valore assai elevato e non conforme alle tariffe ufficiali dei consulenti contabili della prestazione di servizi documentata dalla fattura in contestazione, ed in presenza degli altri elementi presuntivi suindicati addotti in giudizio dall'Amministrazione, non smentiti da elementi di prova di segno contrario da parte di quest'ultima”. Il preciso e puntuale offerto in sede di accertamento, osserva la Corte, “inequivocabilmente dimostrativo dell'intento fraudolento perseguito dalle due società, avrebbe dovuto, invero, indurre la CTR a non riconoscere la detrazione dell'IVA relativa all'operazione in questione da parte della presunta committente […] (cfr., sul punto, C. Giust. UE, 6.7.06, C- 439/04; C. Giust. UE,- 21.2,06, C-255/02; C. Giust. UE, 21.6.12, C-80/11; Cass. 9108/12; 23560/12; Cass. 27718/13)”.
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