Il prestanome non risponde del reato di bancarotta documentale ex art. 216, primo comma, n. 2, prima parte, L.F., se risulta che tutta la documentazione della società è stata consegnata dal commercialista all’effettivo gestore dell’impresa poi fallita.
È quanto emerge dalla
sentenza n. 10647/2019 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione.
Bancarotta fraudolenta
Ai sensi dell’art. 216 L.F. (R.D. n. 267/42 e succ. modif.), è punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore che:
- ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;
- ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.
Fatti commessi su libri e scritture
Secondo giurisprudenza costante di legittimità, in tema di bancarotta fraudolenta documentale, per la configurazione delle ipotesi di reato di
sottrazione, distruzione o falsificazione di libri e scritture contabili previste dall'articolo 216, primo comma, n. 2, prima parte, L.F. è necessario il dolo specifico, consistente nello scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, mentre per le
ipotesi d’irregolare tenuta della contabilità, caratterizzate dalla tenuta delle scritture in maniera da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, è richiesto il
dolo generico, perché la finalità dell'agente è riferita a un elemento costitutivo della stessa fattispecie oggettiva - l'impossibilità di ricostruire il patrimonio e gli affari dell'impresa - anziché a un elemento ulteriore, non necessario per la consumazione del reato, qual è il pregiudizio per i creditori (Cass. pen. Sez. V n. 05905 del 6/12/2019; Cass. pen. Sez. V n. 24328 del 18/05/2005; Cass. pen. Sez. V. 17084 del 9/12/2014).
Ebbene, nel caso qui in esame, il riportato indirizzo riguardante l’elemento soggettivo del reato di bancarotta documentale, ha determinato l’annullamento con rinvio della sentenza di condanna pronunciata nei confronti del
mero titolare formale dell'impresa individuale fallita.
Condanna annullata con rinvio
Con la sentenza impugnata per cassazione, la Corte di appello di Messina ha confermato la condanna dell’imputato, dichiarato fallito, in ordine al reato di cui all'art. 216 comma 1, n. 2 legge fallimentare, per avere
sottratto i libri e le altre scritture contabili della propria impresa individuale.
Il difensore ha denunciato la violazione di legge sul rilievo che la stessa Corte di merito aveva accertato che l’imputato era un
mero prestanome e che tutta la documentazione della società era stata
consegnata dal commercialista all’effettivo gestore dell'impresa, sicché la condotta penalmente rilevante (sottrazione dei libri e delle altre scritture contabili) non poteva essere addebitata all'imputato.
La Suprema Corte ha condiviso l’assunto difensivo.
Gli Ermellini hanno evidenziato che,
«in tema di reati fallimentari, la bancarotta fraudolenta documentale di cui all'art. 216, comma 1, n. 2 prevede due fattispecie alternative, quella di sottrazione o distruzione dei libri e delle altre scritture contabili, che richiede il dolo specifico, e quella di tenuta della contabilità in modo da rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio della fallita che, diversamente dalla prima ipotesi, presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi e richiede il dolo generico» (Cass. pen. Sez. 5, n. 43966 del 28/06/2017; Cass. pen. Sez. 5 n. 18634 dell’1/02/2017).
Il caso di specie, concernendo la sottrazione dei libri e delle scritture contabili,
ricade nella prima ipotesi e dunque richiede il
dolo specifico.
Di conseguenza, gli Ermellini hanno accolto il ricorso dell’imputato, poiché per la configurabilità del reato
deve essere accertato che scopo dell'omissione è
«quello di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori», mentre su tale punto la sentenza impugnata nulla dice. E si tratta di un’evidente carenza motivazionale su uno degli elementi costitutivi del reato che ha imposto ai Massimi giudici di rinviare la causa
per nuovo esame alla Corte di appello.