30 giugno 2018

Consulenza di società estera: tra inerenza e documentazione del costo

Autore: Giovambattista Palumbo
Ai fini della deducibilità del costo, relativo ad una consulenza da parte di una società estera, è necessaria una seria prova, inerente l'effettività e la tipologia concreta delle prestazioni ricevute e tale da giustificare i versamenti in suo favore. Né è sufficiente, ai fini della deducibilità, la produzione della documentazione attestante i versamenti, soprattutto laddove difetti di chiari e precisi riferimenti a quale effettiva prestazione si riferisca.

Il caso – la Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, con la Sentenza n. 524/1/18 del 13 giugno 2018, ha risolto un caso relativo ad una contestazione di inerenza di un costo per consulenza da parte di una società estera.

Nel caso di specie, la società ricorrente impugnava gli avvisi di accertamento, con i quali, a seguito di PVC della Guardia di Finanza, poi confluito nelle determinazioni dell'Agenzia Entrate, venivano disconosciuti una serie di costi e, come conseguenza, accertati i maggiori redditi di impresa e le maggior imposte dovute in tema di IVA, IRAP ed IRES, oltre sanzioni ed interessi.

La Società ricorrente si soffermava, in particolare, sul corretto concetto di inerenza, deducendo l'illegittimità dell'operato dell'ente accertatore, reputando i vari costi disconosciuti del tutto conformi e pienamente deducibili.

La ricorrente, dopo aver evidenziato di essere una società a carattere familiare (4 soci tra loro imparentati) con 3 dipendenti, che si occupava di commercio all'ingrosso di calzature ed accessori, rilevava come fossero deducibili i costi sostenuti per le commissioni dovute e versate ad una società americana, in odine ai quali l’Agenzia aveva invece contestato la carenza dei requisiti di certezza ed inerenza.

La contribuente chiariva dunque quelle che erano le modalità operative e i rapporti economici e commerciali esistenti tra le due società e come il soggetto estero operasse negli USA, occupandosi (anche) di trovare clienti per conto della società italiana, la quale, pertanto, del tutto legittimamente, le aveva riconosciuto commissioni per detta attività, in quanto chiaramente funzionale a concorrere formare il reddito di impresa.

Precisava, inoltre, come in taluni casi la società americana trasmetteva informazioni, foto, indicazioni su modelli materiali etc., che la società italiana poi utilizzava per preparare (a mezzo terzisti, calzaturifici che operavano per suo conto) campioni, che poi venivano spediti alla stessa società americana, la quale, a sua volta, li promuoveva, concludendo anche le relative vendite, con ordine preso in carico dalla società italiana, che poi produceva la merce (sempre a mezzo terzi) e la spediva al cliente/acquirente finale.

Il guadagno, al netto di spese, veniva quindi diviso al 50%, o altra percentuale di volta in volta concordata con la società americana.
Un’altra forma di collaborazione sussisteva, inoltre, con altro soggetto estero, per conto del quale, in sostanza, la società ricorrente, agiva come "ufficio acquisiti" per l'Italia).

La decisione – Secondo la Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, il ricorso era infondato.

Evidenziano infatti i giudici di primo grado che, a ben vedere, la ricorrente aveva prodotto esclusivamente un contratto di consulenza (peraltro in lingua inglese), per un controvalore pari a circa 20.000 euro mensili, riconosciuto valido dall’Amministrazione.

E in tale contratto le attività di "consulenza", in senso lato, risultavano però già ricomprese.

La ricorrente non aveva, invece, dedotto alcuna seria prova inerente l'effettività e la tipologia concreta di ulteriori prestazioni ricevute dalla società americana, tale da giustificare i versamenti in suo favore delle somme dedotte come costi e disconosciute dall'Amministrazione finanziaria.

Nulla giustificava, pertanto, gli ulteriori versamenti, che, correttamente, secondo la CTP, erano quindi stati disconosciuti dall'Agenzia delle Entrate.

E neppure risultava a ciò sufficiente la pur allegata copia di documentazione, attestante versamenti occorsi in favore della società estera.

E ciò in quanto, non solo non poteva comunque essere considerata prova documentale, idonea a dimostrare di avere percepito una effettiva controprestazione, ma anche perché la stessa documentazione difettava, in ogni caso, di chiari e precisi riferimenti a quale effettiva prestazione si riferisse.

Conclusioni - In conclusione, nel caso di specie, non si trattava tanto di valutare se fosse stato ben applicato il concetto di “inerenza” dei costi dedotti, quanto di assenza della dimostrazione di aver effettivamente ricevuto la controprestazione, a fronte dell'esborso dedotto a titolo di costo d'impresa.

Per la dimostrazione della deducibilità del costo, del resto, non è sufficiente la produzione della sola fattura, o la dimostrazione del pagamento.

Come infatti, invece, riconosciuto dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione nel quadro dei generali principi che governano l'onere della prova (art. 2697 Cod. civ.), in ipotesi di accertamento delle imposte sui redditi, spetta:

1) all'amministrazione finanziaria dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria azionata (fornendo quindi la prova di elementi e circostanze a suo avviso rivelatori dell'esistenza di un maggiore imponibile),
2) al contribuente l'onere della prova circa l'esistenza a) dei fatti che danno luogo ad oneri e/o a costi deducibili e b) del requisito dell'inerenza degli stessi all'attività professionale o d'impresa del contribuente.

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