In ambito lavorativo, accade sempre più di frequente che ci si trovi ad affrontare periodi di forte stress non solo fisico ma anche mentale. Inoltre, ci si può imbattere in situazioni incresciose che possono riguardare, ad esempio, casi di mobbing, discriminazioni, retribuzioni non corrisposte in maniera puntuale o non adeguate all’effettivo orario lavorativo, ecc.
Ebbene, qualunque sia il motivo è possibile che il lavoratore - non avendo più intenzione di continuare a lavorare in un contesto che non considera più idoneo alla propria salute mentale o confacente alle sue aspirazioni - decida di rassegnare le dimissioni e interrompere il rapporto di lavoro.
Si tratta di ipotesi in cui l’interruzione del rapporto lavorativo avviene per giusta causa, pertanto non è richiesto alcun preavviso.
Sin qui tutto normale. Ma cosa accade se il lavoratore, che abbia deciso di dimettersi perché non più disposto a sopportare angherie e discriminazioni, una volta licenziatosi spontaneamente intenda ravvedersi e fare un passo indietro e, quindi, revocare le dimissioni regolarmente rassegnate?
In via generale ciò non sarebbe consentito ma, secondo il pronunciamento della Corte di Cassazione del 21.11.2018, lo stato di temporanea alterazione dell’equilibrio psichico in cui versa il lavoratore è condizione sufficiente per l’annullamento dell’atto di dimissioni, senza che a tal fine sia necessaria l’esistenza di un conclamato stato di intendere e volere.
Nello specifico, la questione riguarda un ex dipendente comunale, che ha agito in giudizio per ottenere l’accertamento dell’efficacia della revoca delle proprie dimissioni e/o per la declaratoria di invalidità o inefficacia delle dimissioni.
La domanda, respinta in primo grado, è stata rigettata anche dalla Corte di Appello che ha escluso che le dimissioni possano considerarsi il risultato di un momento di inconsapevolezza dell’agire.
Incaricata della decisione, la Corte di Cassazione, ha ribaltato il giudizio, rinviandolo alla Corte di Appello in diversa composizione e fissando alcuni principi di diritto.
Secondo la Cassazione "ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere (quale prevista dall'art. 428 cod. civ.) costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'importanza dell'atto che sta per compiere.”
In pratica, se il lavoratore decide di rassegnare le dimissioni in uno stato di turbamento psichico lo fa con una volontà non del tutto cosciente, pertanto non ha la totale percezione della decisione che sta prendendo.
Per la Suprema Corte, poi, il Giudice di Appello non ha tenuto conto della “natura di negozio giuridico unilaterale delle dimissioni, posto in essere dal lavoratore e avente come conseguenza la rinunzia del posto di lavoro, bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost., che oltretutto nel caso concreto era foriero di un accertato sicuro pregiudizio per l'interessato e la sua famiglia”.
Stante il valore costituzionale del diritto al lavoro, la decisione di rinunciare al proprio impiego richiede, secondo gli Ermellini, un’attenta valutazione in considerazione delle conseguenze che ciò potrebbe comportare e, dunque, l'indagine sulle dimissioni deve essere rigorosa, visto che in gioco ci sono beni giuridici primari.
Pertanto, le dimissioni rassegnate in uno stato di turbamento psichico sono da ritenere nulle e ciò vale sia per i rapporti di lavoro privato sia per i rapporti di lavoro alle dipendenze della PA.
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