6 luglio 2018

Fatture generiche. Le dichiarazioni dell’emittente aiutano il fisco

Autore: Paola Mauro
L’Amministrazione finanziaria, con le dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, può provare la falsità delle fatture e quindi la bontà dell’avviso di accertamento impugnato. Le dichiarazioni che gli organi dell'Amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice.

È quanto emerge dall’Ordinanza n. 17127/2018 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio che ha annullato l’avviso di accertamento per IRAP, IVA e IRPEF 1997, con il quale veniva contestato al contribuente, esercente attività di commercio di autoveicoli usati, costi relativi a operazioni inesistenti documentati da tre fatture, recanti come causale “sistemazione macchine e pulizia”.

Tali fatture, secondo l’Ufficio, non solo riportavano una descrizione generica della prestazione, ma facevano anche riferimento a un codice fiscale attribuito a una società diversa da quella emittente; inoltre l’amministratore “di fatto” di quest’ultima aveva dichiarato alla Guardia di finanza di non aver mai eseguito lavori per il contribuente, cosa del resto impossibile in ragione dell’attività esercitata (“trasporti e facchinaggio”).

Ebbene, la CTR del Lazio, a conferma del verdetto della CTP, ha ritenuto la ripresa a tassazione illegittima perché fondata su una mera presunzione, a fronte del fatto che il contribuente aveva provveduto al pagamento delle prestazioni fatturate, inerenti a un servizio oggetto dell’attività esercitata.

A questo punto la parola è passata ai Giudici di legittimità, i quali hanno dato ragione all’Amministrazione finanziaria in merito al valore probatorio delle dichiarazioni dell’amministratore “di fatto” della società emittente.

Gli Ermellini affermano che:
  • «gli elementi indiziari, come la dichiarazione del terzo - nella specie, acquisita dalla guardia di finanza nel corso di un'ispezione, il cui verbale era stato debitamente notificato al contribuente -, concorrono a formare il convincimento del giudice, se confortati da altri elementi di prova; se rivestono i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all'art. 2729 cod. civ., essi danno luogo a presunzioni semplici (artt. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 54 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), generalmente ammissibili nel contenzioso tributario, nonostante il divieto di prova testimoniale» (Cass. n. 9402/2007);
  • «nel processo tributario, le dichiarazioni di terzi acquisite in fase di accertamento hanno normalmente valore indiziario, e pur tuttavia, per il loro contenuto intrinseco ovvero per l'attendibilità dei riscontri offerti, possono assumere valore di presunzione grave, precisa e concordante ex art. 2729 c.c. e, cioè, di prova presuntiva idonea a fondare e motivare l'atto di accertamento» (Cass. n. 16711/2016).

Alla luce di questi principi il giudizio di legittimità ha avuto esito positivo per l’Agenzia delle Entrate, in quanto la Corte ha rilevato che il valore presuntivo delle dichiarazioni dell’amministratore di fatto della società emittente ha trovato conforto in una serie di elementi:
  • la genericità dell’indicazione nelle fatture delle prestazioni rese;
  • il non essere il codice fiscale indicato nelle fatture attribuito alla società che avrebbe eseguito le prestazioni;
  • la non attinenza dell’oggetto sociale della società emittente all’attività esercitata dal contribuente;
  • la mancanza di certezza del pagamento delle fatture, atteso che esse, dal libro giornale di contabilità, risultavano effettuate attraverso il conto “cassa contanti”.

La Suprema Corte, in conclusione, rimette la causa dinanzi ai giudici di appello, per nuovo giudizio.
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