La falsità soggettiva delle fatture, anche in assenza di ogni allegazione e prova circa l'estraneità alla frode, non impedisce la deducibilità dei costi ai fini delle imposte dirette. Lo ha ricordato la
Corte di Cassazione (Sez. T.) con la sentenza n. 2555 depositata in data 2/02/2018, con cui è stato respinto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate.
La Suprema Corte esamina il caso di una società di capitali nei confronti della quale, durante un’indagine della Guardia di Finanza, sono emersi elementi significativi di evasione fiscale e alla quale, di conseguenza, è stato notificato un avviso di accertamento per IVA, IRPEF ed IRAP 2004, impugnato presso la Commissione Tributaria Provinciale di Pesaro, che ha rigettato il ricorso.
Alla società è stata contestata la partecipazione a una frode IVA, e il giudice di primo grado ha ritenuto di avere sufficienti elementi per poter confermare integralmente l’atto di accertamento impugnato.
La decisione di primo grado è stata riformata dalla Commissione Regionale delle Marche. In particolare, quest’ultima ha accolto l’appello proposto dalla società
limitatamente alla detraibilità dei costi per operazioni soggettivamente inesistenti ai fini delle imposte dirette.
La Commissione di secondo grado ha invece affermato l'indetraibilità dell'IVA sugli acquisti documentati da fatture soggettivamente false,
stante la piena consapevolezza della contribuente del meccanismo fraudolento.
Ebbene, l’Agenzia fiscale ha sottoposto il caso alla Suprema Corte, ma senza successo.
In ricorso l’Amministrazione ha denunciato la violazione di legge laddove la C.T.R., rilevando la piena consapevolezza del contribuente circa la falsità soggettiva delle fatture, e comunque in assenza di ogni allegazione e prova circa l'estraneità alla frode, ha nondimeno ritenuto la deducibilità ai fini delle imposte dirette dei costi documentati nelle stesse fatture.
Al riguardo, gli Ermellini hanno richiamato l’insegnamento espresso da Cass. n. 13803 del 2014, poi confermato in Cass. n. 16719 del 2016, secondo cui:
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«In tema di imposte sui redditi, la partecipazione alla frode carosello o la mera consapevolezza della stessa, da parte del concessionario, non determina ex se il venire meno dell'inerenza all'attività di impresa del bene di cui all'operazione soggettivamente inesistente e non ne esclude, pertanto, la deducibilità, dovendosi tenere distinti gli effetti della condotta del contribuente in relazione alla disciplina dell'IVA e a quella delle imposte dirette, atteso che, nel primo caso, la condotta dolosa o consapevole del concessionario, a cui è parificata l'ignoranza colpevole, impedisce l'insorgenza del diritto alla detrazione per mancato perfezionamento dello scambio, non essendo l'apparente cedente l'effettivo fornitore, mentre, ai fini delle imposte dirette, l'illecito o la mera consapevolezza di esso non incide sulla realtà dell'operazione economica e sul pagamento del corrispettivo in cambio della consegna della merce, per cui il costo dell'operazione, ove imputato al conto economico, può concorrere nella determinazione della base imponibile ai fini delle imposte dirette nella misura in cui il bene o servizio acquistato venga reimpiegato nell'esercizio dell'attività di impresa e sempre che non venga utilizzato per il compimento di un delitto non colposo.»
Nel caso di specie la sentenza impugnata è in linea con questo indirizzo e pertanto non merita censura.
La Suprema Corte, in definitiva, rigetta il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, ma non dispone la sua condanna alle spese del giudizio, in mancanza di attività difensiva della società intimata.