La Corte di Cassazione con la sentenza n. 4887/2019, recentemente depositata, ha individuato un ben preciso principio di diritto in tema di confisca per equivalente e dei suoi limiti.
All'imputata, a seguito della condanna in secondo grado per il reato di frode fiscale, erano stati confiscati numerosi beni personali tra i quali alcune quote societarie.
La misura applicata con la sentenza definitiva di condanna era, come previsto dalla normativa, quella della confisca nella forma per equivalente, entrata in vigore attraverso la legge n. 244/2007, la quale consente al giudice di poter sequestrare non solo i beni legati da un nesso con il reato ma tutti quelli comunque in disponibilità del reo, purché non appartengano a terzi estranei al reato.
Nel caso di specie, all'imputata erano state sequestrate anche quote societarie, ma la particolarità della situazione era dovuta al fatto che la proprietà di tali beni spettava al di lei coniuge, il quale ritenendosi leso nei propri diritti ricorreva per Cassazione avverso la decisione dei giudici di secondo grado al fine di ottenerne la restituzione.
Egli deduceva in apposito motivo di ricorso, come la decisione di appello presentava numerosi aspetti d'illegittimità, tra i quali anche uno relativo al criterio utilizzato per l'individuazione del bene oggetto della misura ablatoria.
Infatti, la normativa consente il sequestro di tutti i beni in disponibilità del reo, individuando tuttavia un ben preciso presupposto in assenza del quale non è possibile dare corso alla misura.
Orbene, tale criterio sarebbe stato nel caso di specie palesemente violato da parte dei giudici di merito.
In particolare, i giudici di secondo grado avevano desunto tale stato dalla partecipazione da parte dell'imputata ad alcune assemblee societarie, ricavando dalla circostanza l'utilizzo delle quote da parte della ricorrente.
Non solo, ma la prova dell'assenza di ogni potere dispositivo da parte dell'imputata poteva essere dedotta anche dal fatto che la ricorrente aveva erogato cospicue somme di denaro a favore della società stessa.
Il procedimento dopo avere esaurito il proprio iter veniva deciso da parte dei giudici della Corte Suprema di cassazione.
La decisione degli ermellini prende una precisa posizione sulla questione della delimitazione del rapporto tra bene e soggetto condannato per reati tributari al fine di potere provvedere alla confisca.
La motivazione ritiene che tale rapporto possa essere identificato non con quello che connota la relazione esistente tra un bene ed il suo proprietario, ma con quello che intercorre tra un bene ed il suo possessore previsto dall' art.1140 del codice civile.
Si tratta di una situazione in tutto e per tutto simile al diritto di proprietà, in quanto anch'essa consente al soggetto attivo un potere dispositivo sul bene, senza che sia necessaria l'intermediazione di altri.
Non solo, ma gli ermellini compiono un'ulteriore constatazione, relativa alle ipotesi in cui il reo consenta a terzi il loro utilizzo.
Infatti, anche in tali casi non viene meno il requisito della disponibilità come richiesto dalla normativa, nel solo caso, però, che nonostante l'utilizzo da parte dei terzi consenta comunque di soddisfare l'interesse economico del reo.
Nel caso di specie, pertanto, il requisito richiesto dalla normativa, costituito dall'effettivo esercizio da parte dell'imputata dei diritti relativi alle quote, può dirsi realizzato; la riprova del fatto sarebbe costituita dalla partecipazione dell'imputata alle assemblee.
Il ricorso viene pertanto rigettato da parte dei giudici della Corte Suprema.
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