La Corte di Cassazione, con la
sentenza n. 13534 del 20 maggio 2019, ha affermato che è legittimo il licenziamento per giusta causa inflitto alla dipendente che ha reagito allo schiaffo di una collega dopo averla provocata.
Il fatto
Il Tribunale dichiarò l'illegittimità del licenziamento disciplinare intimato nell’agosto del 2015 ad una dipendente di una società per essere venuta alle mani con altra dipendente in presenza anche di clientela. Il Tribunale, confermando l'ordinanza resa nella fase sommaria, ritenne che la dipendente
"affetta da ipertensione endocranica e da restringimento del campo visivo concentrico", avesse reagito ad un precedente schiaffo inferto dalla collega, colpendo quest'ultima con una cartella di plexiglass.
A seguito di ricorso della società, la Corte di Appello, con sentenza pubblicata in ottobre 2017, in riforma di detta pronuncia, ha dichiarato la legittimità dell'impugnato licenziamento.
Secondo la Corte distrettuale la dipendente ha volontariamente creato la situazione di pericolo per la propria salute.
Per la Corte territoriale
"elisa l'esimente dello stato di necessità (…) residua il fatto oggettivo e la sua antigiuridicità",
"fatto che il CCNL applicato espressamente sanziona con il licenziamento, sussistendo anche l'incidenza sull'organizzazione aziendale attesi i due certificati medici dai quali risulta il periodo di riposo prescritto per entrambi i dipendenti".
Avverso la sentenza sfavorevole la dipendente è ricorsa in Cassazione
Tra le diverse motivazioni del ricorso in Cassazione si evidenzia la parte in cui si censura la sentenza della Corte territoriale per "violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., (…) in relazione all'art. 229 del CCNL per i dipendenti da aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi del 18 luglio 2008”.
Si eccepisce che la fattispecie di illecito disciplinare legittimante per la contrattazione collettiva il licenziamento, descritta come
"diverbio litigioso seguito da vie di fatto in servizio anche fra dipendenti, che comporti nocumento o turbativa al normale esercizio dell'attività aziendale", sarebbe stata interpretata secondo un precedente di legittimità (cfr. Cass. n. 5280 del 2013) nel senso che essa
"non può condurre al licenziamento, nell'ipotesi in cui si reagisca all'altrui aggressione", il che sarebbe accaduto nella specie, secondo la prospettazione dell'istante, laddove la dipendente si era
"difesa dalla violenta aggressione fisica dell'antagonista dagli effetti potenzialmente devastanti per la sua salute".
La sentenza dei giudici di legittimità
La Corte di Cassazione ritiene non fondate le motivazioni del ricorso della dipendente. Per i giudici di legittimità è innanzitutto indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta cosi come effettuata dai giudici di merito, altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici. Poiché poi gli elementi da valutare ai fini dell’integrazione della giusta causa di recesso sono, per consolidata giurisprudenza, molteplici (come gravità dei fatti addebitati, portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono state commessi, intensità dell'elemento intenzionale, etc.) occorre guardare, nel sindacato di legittimità, alla rilevanza dei singoli parametri ed al peso specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde verificarne il giudizio complessivo che ne è scaturito dalla loro combinazione e saggiarne la coerenza e la ragionevolezza della sussunzione nell’ambito della clausola generale.
In secondo luogo, come insegnano le pronunce delle Sezioni unite della Cassazione formatesi in tema di sindacato di legittimità nell’individuazione di condotte costituenti illecito disciplinare di esercenti talune professioni, illecito definito mediante clausole generali o, comunque, concetti giuridici indeterminati,
"il compito del controllo di legittimità può essere soltanto quello di verificare la ragionevolezza della sussunzione del fatto".
I richiamati precedenti chiariscono che il sindacato di legittimità
"sull'applicazione di un concetto giuridico indeterminato deve essere rispettoso dei limiti che il legislatore gli ha posto, utilizzando una simile tecnica di formulazione normativa, che attribuisce al giudice del merito uno spazio di libera valutazione e apprezzamento"; la Corte non può, pertanto,
"sostituirsi al giudice del merito nell’attività di riempimento dei concetti giuridici indeterminati [...] se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza";
"il sindacato sulla ragionevolezza è quindi non relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell'ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione" (cfr. . SS.UU. n. 23287 del 2010).
In riferimento alla contesa in commento la Corte territoriale da un lato ha stigmatizzato il comportamento della dipendente ricorrente per avere provocato la reazione della collega con una "intimazione" verbale giudicata non solo "inopportuna" ma anche diretta volutamente "ad amplificare il disagio e l'imbarazzo della collega ", in quanto "effettuata in presenza di altre colleghe e di un cliente"; dall'altro ha ritenuto che la reazione della dipendente allo schiaffo ricevuto non fosse stata determinata "dall'effettivo timore [...] per la propria salute".
Evidentemente si tratta di una ricostruzione della vicenda storica effettuata dai giudici del merito cui esclusivamente compete e che è invece criticata da parte ricorrente mutando il "narrato" della sentenza impugnata, che è invece intangibile in Cassazione.
Il che nella specie è avvenuto avendo la Corte territoriale valutato la condotta della dipendente ricorrente immediatamente precedente al passaggio alle vie di fatto come volta a provocare la collega e quindi non omologabile a quella di un lavoratore che si limiti a reagire all'altrui aggressione, avendo anche la stessa Corte espressamente escluso in fatto che la reazione allo schiaffo fosse stata determinata dal timore per la propria salute fisica.
Il contributo causale della collega al diverbio litigioso, seguito dall'accendersi dello scontro fisico, ha evidentemente ingenerato il convincimento nella Corte territoriale che la condotta sicuramente antigiuridica della lavoratrice, dal momento che era stata negata qualsiasi esimente, fosse riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenuto conto delle previsioni della contrattazione collettiva quali parametri integrativi della clausola generale, avuto riguardo anche alla gravità del comportamento in concreto tenuto, pure sotto il profilo soggettivo della colpa.
Per tali motivi la Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.