La remissione del trattamento di fine mandato effettuata alla società dall’amministratore è assimilabile alla percezione dell’indennità solo nel caso in cui la corrispondente rinuncia al credito vantato gli attribuisca un vantaggio economico. In assenza di tale vantaggio, la remissione non comporta in capo all’amministratore il realizzo di alcun reddito imponibile. E’ questo il tenore letterale della massima espressa con la norma di comportamento n. 201 emanata dall’Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili su cui si era espressa anche l’Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 124/E/2017.
Il TFM (trattamento di fine mandato) è un’indennità che la società può corrispondere agli amministratori alla scadenza del loro mandato. Non è disciplinata in modo specifico dalla normativa civilistica ed il suo ammontare è determinato, secondo criteri di ragionevolezza e congruità rispetto alla realtà economica dell’impresa, attraverso una specifica previsione statutaria ovvero mediante delibera assembleare dei soci. Gli accantonamenti al fondo per il TFM sono, quindi, fiscalmente deducibili per la società in base al principio di competenza, prescindendo dal momento in cui l’indennità sia effettivamente pagata. Tale deducibilità, per effetto del rinvio all’articolo 17, comma 1, lettera c), del TUIR, è subordinata al fatto che il diritto a all’indennità risulti da un “
atto di data certa anteriore all’inizio del rapporto”. In caso contrario, la deduzione del relativo costo avverrà nell’anno di effettiva erogazione dell’indennità medesima (Risoluzione n. 211/E/2008).
La posizione delle Entrate – Nella richiamata risoluzione, l’Amministrazione finanziaria aveva chiarito che, poiché non è ravvisabile alcuna differenza tra il valore fiscale dei crediti rinunciati e il loro valore nominale, in caso di rinuncia al TFM da parte degli amministratori soci, la società (ai sensi del comma 4-bis art. 88 TUIR) non dovrà tassare alcuna sopravvenienza attiva. A tal fine ricordano le entrate che a norma del citato comma 4-bis
“La rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale. A tal fine, il socio, con dichiarazione sostitutiva di atto notorio, comunica alla partecipata tale valore; in assenza di tale comunicazione, il valore fiscale del credito è assunto pari a zero. (…)”. Ne consegue che se manca la predetta comunicazione, il debitore (società) è tenuto ad assoggettare a tassazione tutta la sopravvenienza attiva.
Per quanto riguarda, invece, la rinuncia del TFM da parte di amministratori esterni alla società, mancando in capo a questi la qualifica di socio, le Entrate ritengono applicabile il comma 1 dell’art. 88 TUIR in base al quale
“Si considerano sopravvenienze attive i ricavi o altri proventi conseguiti a fronte di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi e i ricavi o altri proventi conseguiti per ammontare superiore a quello che ha concorso a formare il reddito in precedenti esercizi, nonché' la sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi”. Ne consegue che la società dovrà tassare una sopravvenienza attiva nei limiti delle quote di trattamento di fine mandato accantonate e dedotte. Si precisava altresì che:
- nel caso, in cui gli amministratori soci rinuncino alle quote di TFM accantonate dalla società istante patrimonializzando la stessa, i crediti rinunciati, che si intendono giuridicamente incassati, dovranno essere assoggettati a tassazione in capo ai soci persone fisiche non imprenditori, con conseguente obbligo di effettuazione della ritenuta alla fonte da parte della società;
- nel caso di rinuncia operata dagli amministratori non soci, non trovando applicazione, come detto in precedenza, il comma 4-bis dell’articolo 88 del TUIR, sarà la società istante ad assoggettare a tassazione la sopravvenienza attiva derivante dalla rinuncia al TFM nei limiti in cui abbia dedotto gli accantonamenti effettuati in passato. Per gli amministratori non soci, in assenza di una contropartita e non potendo incrementare il valore della partecipazione, il principio del c.d. incasso giuridico non si applica ed essi non saranno assoggettati ad alcuna imposizione fiscale.
Il parere dell’AIDC - In primo luogo, nella norma di comportamento citata, l’AIDC evidenzia la natura reddituale del TFM, il quale, ai sensi del comma 1 lett. c) art. 50 TUIR è qualificabile come reddito assimilato a quello di lavoro dipendente (salvo il caso in cui gli uffici di amministratore o le collaborazioni rientrino nei compiti istituzionali compresi nell’attività di lavoro dipendente o nell’oggetto dell’arte o professione). Come tale, dunque, è tassato, in capo al percettore, secondo il principio di cassa con la conseguenza che un sua mancata percezione non manifesta alcuna capacità contributiva ed alcun presupposto impositivo (di cui all’art. 1 TUIR).
Al contrario, in caso di rinuncia al credito da parte dell’amministratore, il presupposto impositivo si manifesterebbe nel caso in cui alla predetta rinuncia sia indirettamente collegata una controprestazione di qualsiasi natura (differente dal denaro), ovvero quando il credito stesso sia utilizzato per estinguere obbligazioni facenti capo all’amministratore medesimo. Sulla base di tale considerazione, quindi, scaturisce una seconda massima enunciata dall’AIDC secondo cu
i “si deve affermare che dalla mera remissione della posizione creditoria non può conseguire una presunzione automatica di incasso dei relativi importi, conseguenza che si determina solo nell’ipotesi in cui si realizzi un incremento patrimoniale o reddituale oggettivamente riconoscibile e fiscalmente riconosciuto”. E già qui un primo contrasto con quanto ritenuto, invece, dall’Amministrazione finanziaria nella Circolare n. 73/E/1994 dove è stato affermato che la rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l’avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta di imposta.
Partendo dall’assunto che la remissione del debito (rinuncia al credito) dell’amministratore al trattamento di fine mandato intervenga dopo che la società abbia dedotto le relative quote TFM, imputate a conto economico a titolo di accantonamento, senza che si sia prodotto alcun effetto reddituale in capo all’amministratore, l’AICD affronta, come già fatto dalle Entrate nella Risoluzione 124/E/2017, in caso dell’amministratore socio e non socio.
Per quanto attiene all’amministratore socio, secondo l’associazione, la rinuncia al TFM rende l’operazione fiscalmente ininfluente per lo stesso poiché non gli comporta nessun vantaggio economico. Il valore fiscale del credito, dunque, è da considerarsi nullo visto che il TFM (cui si è rinunciato) non ha mai concorso a formare la base imponibile del reddito dell’amministratore. Infatti, il fatto che la rinuncia al credito da parte di quest’ultimo comporti un arricchimento della società e, di conseguenza, indirettamente anche della partecipazione del socio/amministratore, è ininfluente ai fini della quantificazione del valore fiscale del credito rinunciato, perché lo stesso processo di arricchimento indiretto del socio si verifica per qualsiasi sopravvenienza attiva goduta dalla società (l’arricchimento interverrà solo nel momento eventuale e successivo in cui il maggior valore della partecipazione dovesse essere effettivamente realizzato e conseguito). Ne consegue che, per l’amministratore, la rinuncia del credito non comporta un incremento del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione, disciplinato dall’art. 94, comma 6 del TUIR. Per la società, invece, l’imputazione a una posta di patrimonio netto dell’ammontare del credito rinunciato dall’amministratore socio determinerà una sopravvenienza attiva imponibile da assoggettare a imposizione mediante una corrispondente variazione in aumento in sede di dichiarazione dei redditi (e ciò ai sensi del citato art. 88, comma 4-bis TUIR). L’AIDC ritiene che ciò è in linea con la finalità che il legislatore ha inteso conseguire con l’introduzione del predetto comma 4-bis (avvenuta ad opera del D. Lgs. 147/2017), ossia quella di assicurare l’uniformità di trattamento alle diverse ipotesi di rinuncia dei crediti dei soci con l’unico discrimine riguardante solo il valore fiscale del credito rinunciato con la conseguenza che nel caso in cui esso si nullo si viene a determinare esclusivamente la sopravvenienza attiva per la società beneficiaria della remissione da parte dell’amministratore. Conclude l’associazione, che sulla base delle predette considerazioni, è da disattendersi l’orientamento espresso dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare n. 124/E, poiché basato su orientamenti giurisprudenziali (Cassazione n. 26842 del 18 dicembre 2014; Ordinanza n. 1335 del 26 gennaio 2016) non più afferenti la fattispecie in esame visto che sono stati emanati in periodi antecedenti la modifica normativa.
Per quanto riguarda il caso della rinuncia da parte dell’amministratore non socio, è, invece, pienamente condivisa la tesi dell’Amministrazione finanziaria ossia che non si viene a determinare alcun effetto reddituale in capo all’amministratore e la società, a fronte del costo precedentemente dedotto, realizza una sopravvenienza attiva imponibile, ai sensi dell’art. 88, comma 1 del TUIR.