21 aprile 2018

Società di comodo. La richiesta di disapplicazione deve essere ben documentata

Cassazione Tributaria, ordinanza depositata il 20 aprile 2018

Autore: Paola Mauro
In materia di società di comodo, la documentazione idonea a dimostrare l’oggettiva situazione che rende impossibile il conseguimento di ricavi deve essere integralmente prodotta da chi richiede la disapplicazione della norma antielusiva, non gravando sull’Agenzia delle Entrate l’onere di acquisire i documenti eventualmente in possesso di altre amministrazioni pubbliche.

È quanto emerge dall’ordinanza n. 9852/2018 pubblicata il 20 aprile dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione.

Il giudizio nasce dal provvedimento dell’Agenzia delle Entrate che ha dichiarato inammissibile, per la “scarna rappresentazione” dei fatti, l’istanza di disapplicazione della normativa antielusiva presentata da una S.r.l. ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, d.P.R. n. 600/73 e dell’art. 30, comma 4-bis, L. n. 724/1994.

La Commissione Tributaria Regionale della Puglia, in riforma della decisione del Primo giudice, ha riconosciuto come impugnabile il suddetto provvedimento ma ha respinto l’appello per le carenze probatorie dovute alla documentazione, «insufficiente e poco significativa», allegata all’istanza di interpello. Ora anche la Cassazione si è espressa in senso sfavorevole alla società.

La contribuente ha sostenuto di non avere ottenuto le autorizzazioni per la realizzazione di un opificio industriale e che per questo motivo non aveva potuto avviare le attività previste e dunque non aveva potuto conseguire ricavi. Al riguardo, ha fatto presente che la circostanza era stata accertata in un altro giudizio e che, inoltre, la documentazione ritenuta dall’Agenzia fiscale indispensabile ai fini dell’esame e dell’eventuale accoglimento dell’istanza di disapplicazione (come per esempio la certificazione di inagibilità degli immobili) era in possesso di altre amministrazioni pubbliche e non poteva essere richiesta alla società.

Ebbene, la Suprema Corte non ha sposato gli argomenti difensivi della società e, per quanto riguarda la documentazione in possesso di altre amministrazioni pubbliche, ha sostenuto che l’istante aveva l’onere di fornire all’Ufficio finanziario tutti i documenti idonei a dimostrare la sussistenza dei presupposti per l’invocata disapplicazione delle norme antielusive. Precisamente «nella fattispecie» - chiosano gli Ermellini - «la contribuente doveva dimostrare la propria operatività, ovvero i motivi per i quali era impossibilitata a svolgere l’attività imprenditoriale».

La Suprema Corte ha osservato che l'articolo 30, comma 1, della legge n. 724/1994 ha introdotto una presunzione legale relativa in base alla quale una società si considera “non operativa” se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati in conto economico è inferiore a un ricavo presunto, calcolato applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società (cosiddetto test di operatività dei ricavi). Siccome l'art. 30 cit. individua la società “non operativa” esclusivamente sulla base del criterio quantitativo del test, indipendentemente dalle intenzioni e dal comportamento dei soci, il comma 4-bis dello stesso articolo ha previsto la possibilità di presentare istanza di interpello (chiedendo la disapplicazione delle “relative disposizioni antielusive”) in presenza di situazioni oggettive (ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell'imprenditore) che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito di cui al comma 1 dell'art. 30. Tale normativa, rispondente ai fini antielusivi, è funzionale alla realizzazione piena del principio di capacità contributiva; e l’esigenza di coniugare l’equilibrio nel riparto del carico fiscale e il diritto di difesa del contribuente appare sufficientemente garantita dagli strumenti del contradditorio e della necessaria motivazione puntuale della condotta elusiva nell’avviso di accertamento. «La decisione impugnata» - per gli Ermellini - «fa corretta applicazione di questi principi e non lede in alcun modo i diritti della contribuente, attenendosi alle previsioni di legge».

I Massimi giudici, in conclusione, respingono il ricorso della società, disponendo la sua condanna al pagamento delle spese di lite, in favore dell’Agenzia delle Entrate.
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