In vista della prossima legge di bilancio sono emerse, nel dibattito che accompagna tale delicato passaggio, anche alcune prime proposte di nuove misure fiscali (in particolare finalizzate a reperire risorse finanziarie).
Tra queste anche quella denominata “sugar tax”. Cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando. Anche perché non è la prima volta che ne sentiamo parlare.
Il 13 settembre 2018 era stata infatti presentata una risoluzione in Commissione affari sociali della Camera per "impegnare il governo a combattere l’obesità infantile" con varie misure, tra cui anche una sugar tax sulle bevande zuccherate.
Vero è che, secondo i dati dell’OMS, il fenomeno dell’obesità giovanile nel mondo occidentale è oggi 10 volte superiore rispetto agli anni Settanta. E, in Italia, il “popolo degli obesi” cresce di circa l’8% ogni anno.
Spetta inoltre proprio al nostro Paese il primato in Europa per l’obesità infantile: un bambino su tre, con picchi nelle Regioni del Sud Italia, ha problemi di sovrappeso.
La domanda, però, è un’altra: può la leva fiscale servire allo scopo di cambiare le abitudini alimentari dei consumatori?
La tassazione serve a poco in questi casi, se non viene associata a dei precisi percorsi di educazione alimentare.
La leva fiscale, infatti, se utilizzata solo in funzione “dissuasoria” o impositiva, rischia semplicemente di far aumentare le entrate erariali, senza risolvere, però, il problema sociale.
I precedenti
È comunque difficile stabilire, a priori, se la leva fiscale possa effettivamente cambiare le abitudini di consumo. Il vero successo di tali forme di imposizione non si dovrebbe comunque misurare dal lato della domanda, quanto nella sua capacità di spingere i produttori a ridurre il contenuto di zuccheri delle proprie bibite per sottrarsi all’obbligo impositivo e magari prevedere poi che il gettito raccolto venga investito in programmi a favore di campagne di informazione e prevenzione.
Guardando comunque a chi ha già introdotto tale tipo di tassa, in Messico, la cosiddetta soda tax sulle bevande con zuccheri, nell’arco di due anni, ha portato una riduzione di consumo del 7,6%. E contemporaneamente sono aumentate le vendite delle bibite non tassate.
E in Ungheria, dove fin dal 2011 è stata introdotta una public health product tax (PHPT), consistente in un’imposizione aggiuntiva sui prodotti contenenti un’alta concentrazione di zuccheri e calorie, il 40% delle imprese del settore ha “spontaneamente” rimosso o ridotto dai propri prodotti gli ingredienti nocivi soggetti a tassazione.
In Gran Bretagna, infine, vi è la cosiddetta Soft Drinks Industry Levy, laddove sulle bibite contenenti più di 5 grammi di zucchero per ogni 100 millilitri viene applicata un’accisa da 18 pence, che sale a 24 pence al litro per le bibite con più di 8 grammi di zucchero per ogni 100 millilitri. E anche lì molte aziende produttrici, per evitare di pagare, hanno diminuito il contenuto di zuccheri.
Altro esempio virtuoso è quello dell’Irlanda, laddove il meccanismo della Sugar Sweetened Drinks Tax è analogo a quello inglese, seppur con alcune differenze, ad esempio sugli importi dovuti, pari a 0,20 euro al litro da 5 a 8 grammi di zucchero su 100 ml a 0,30 euro dagli 8 in su. La tassa è peraltro entrata in vigore dopo aver ottenuto l’ok sulla sua compatibilità con le norme Eu sugli aiuti di Stato da parte della Commissione europea. Uno studio sugli esiti della tassazione dei soft drinks in Irlanda, ha rilevato una riduzione dell’11% del consumo delle bibite per ogni aumento del 10% del prezzo.
Questo non vuol dire che tale tipo di misura possa automaticamente funzionare anche in Italia, o che non vi siano criticità, tra cui, ad esempio, anche il fatto che potrebbe essere imposta regressiva e che le conseguenze di una tale misura dovrebbero essere analizzate sotto il profilo degli effetti sull’economia nazionale, che potrebbe subire uno svantaggio concorrenziale a scapito di competitor esteri.
Gli effetti
È difficile stabilire a priori se il maggior costo di produzione conseguente alla tassazione si possa ribaltare totalmente su un aumento dei prezzi al dettaglio ed eventualmente se bibite più costose cambieranno effettivamente le abitudini di consumo.
L’utilità ed efficacia disincentivante della misura dipende peraltro da diverse variabili.
E una di queste è la cosiddetta elasticità della domanda, cioè il modo con cui il consumatore reagisce alla variazione di prezzo, laddove per i soft drink l’elasticità della domanda è stata valutata fra 0,8 e 1,2.
Ciò significa che da un aumento di prezzo del 20% ci si potrebbe aspettare una riduzione dei consumi del 20% circa, quando l’accisa incide interamente sul prezzo al consumatore.
La risposta dei consumatori quando si interviene sulle dinamiche di prezzo che coinvolgono prodotti in grado di indurre dipendenza è comunque molto articolata e le accise, per mantenere efficacia, dovrebbero cambiare ogni anno, per non venire erose dall’inflazione.
La domanda di bevande zuccherate sembra comunque essere elastica rispetto al prezzo, ovvero sensibile alle variazioni di prezzo, a differenza di altri prodotti per i quali la variazione percentuale in consumo è inferiore alla variazione percentuale del prezzo.
La stima degli esiti sulla salute, in particolare sulle variazioni del Body Mass Index (BMI), risulta invece più incerta. Il fatto che i cambiamenti del prezzo di particolari prodotti determinino una variazione del peso corporeo dipende infatti dalla misura in cui il consumo risponde al prezzo del prodotto stesso, ma anche dagli effetti dei prezzi che inducono una sostituzione nei prodotti acquistati.
La tassa dovrebbe quindi innanzitutto essere disegnata in modo tale da evitare la sostituzione con altri alimenti dal basso valore nutrizionale, ma meno costosi, siano essi tassati o meno. L’effetto della tassazione delle bevande zuccherate sulla prevalenza dell’obesità, inoltre, potrebbe non essere lo stesso in tutti i Paesi, essendo naturalmente più efficace dove obesità e consumo sono elevati.