31 agosto 2018

Un programma di semplificazioni fiscali

Autore: Giovambattista Palumbo
Il tema delle semplificazioni fiscali (se possibile, a costo zero) è sicuramente un tipo di possibile intervento su cui poter subito partire, con vantaggi sia per la macchina burocratica che per il contribuente. In fondo, per gli addetti ai lavori, gli ambiti su cui intervenire sono piuttosto noti. Di seguito un breve reminding.

In fondo, per dare un segnale forte di una nuova ripartenza nel rapporto tra fisco e contribuenti, basterebbe partire da pochi, mirati, interventi di semplificazione.

Per quanto riguarda, ad esempio, la disciplina delle perdite fiscali, abbiamo oggi differenti regole, rispettivamente, per i soggetti Ires, Irpef in ordinaria, Irpef in semplificata, Iri e minimi. Sarebbe, dunque, probabilmente opportuno creare un unico regime, garantendo così maggiore semplicità applicativa.

I termini dichiarativi e di pagamento, poi, sono una spina nel fianco di professionisti e contribuenti, non solo per la loro molteplicità, ma anche perché spesso non congrui (o comunque anticipati) rispetto alla pubblicazione dei documenti esplicativi di prassi e alle versioni definitive dei software, necessari per gli adempimenti. E le proroghe continue e asistematiche non rappresentano certo una soluzione.

Se c’è una cosa da cui, però, bisognerebbe senz’altro partire, anche solo per eliminare in un sol colpo migliaia di contenziosi pendenti presso le Commissioni tributarie di merito e la Corte di Cassazione, questa dovrebbe essere una chiara definizione del concetto di autonoma organizzazione ai fini Irap. Una tale misura semplificherebbe la vita ai professionisti e lavoratori autonomi, nel comprendere se sono soggetti o meno all’imposta, senza dover attendere l’esito di contenziosi defatiganti. A tal fine, del resto, basterebbe recepire gli indirizzi, ormai prevalentemente univoci della Cassazione.

In generale, poi sarebbe opportuno eliminare le complessità burocratiche nella gestione di beni con costi a deducibilità limitata (auto e telefonini, in primis) e per i beni a d uso promiscuo, stabilendo, semplicemente, un limite massimo dei costi deducibili, determinato come parametro da applicare ai ricavi dell’impresa. Basterebbe, dunque, introdurre regole di deducibilità omogenee e semplici (magari, nel caso delle auto, incentivando, attraverso la leva fiscale, anche l’acquisto di veicoli a basso impatto ambientale).

Altro settore su cui intervenire, con efficacia e rapidità, sarebbe senz’altro quello dei tempi dei rimborsi, soprattutto di quelli legati al regime dello split payment.

In questo settore, inoltre, l’applicazione, anche nel caso dello split payment, di un sistema tipo plafond esportatori abituali, a ben vedere, sarebbe una semplificazione del rapporto con l’Erario, poiché la facoltà di acquistare senza applicazione dell’IVA rappresenterebbe solo un’agevolazione finanziaria, consentendo ai contribuenti di evitare di trovarsi perennemente in una posizione di credito nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, e di evitare di ricorrere allo strumento del rimborso, che, a causa dei cronici ritardi, crea, come noto, diversi problemi dal punto di vista finanziario.

Del resto, in base alla stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia, le modalità nazionali di rimborso dell’eccedenza di Iva devono comunque consentire al soggetto passivo di recuperare, in condizioni adeguate, il credito risultante da detta eccedenza di Iva. La soluzione del plafond potrebbe dunque consentire tali condizioni adeguate.

In un caso affrontato dalla Corte Comunitaria (sent. del 28 luglio 2011, nella causa C-274/10), relativamente alle modalità di rimborso ungheresi, queste sono state del resto ritenute inadeguate dalla Corte, in quanto emergeva che la normativa ungherese rendeva del tutto indeterminato, ovvero indeterminabile, il momento in cui il soggetto passivo avrebbe potuto ottenere il rimborso.

E del resto l’art. 183 della Direttiva Iva, come dice la stessa Corte, non osta a che il rimborso dell’eccedenza dell’Iva venga effettuato in modalità equivalente al pagamento in denaro. E dato che una modalità equivalente al pagamento in denaro è stata appunto riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia nella compensazione (Causa C-107/10, Enel Maritsa Iztok 3 AD, punti 65 e 66), perché allora non dovrebbe essere ammissibile anche il sistema del plafond?

L’ammissibilità di un sistema di plafond acquisti senza Iva consentirebbe infatti allo Stato membro di assolvere il proprio obbligo di rimborso senza che il soggetto passivo risulti esposto a rischi finanziari.

Anche nel caso degli esportatori abituali (art. 164 Direttiva), del resto, la non imponibilità è finalizzata ad evitare che l’esportatore abituale sia finanziariamente esposto nei confronti dell’Erario in ragione dell’attività dal medesimo svolta. Dunque la ratio è sempre la stessa.

Non si dimentichi infine che, con l’attuale sistema, si genera oggi il paradosso che per evitare di accumulare crediti con l’Erario diventa in sostanza vantaggioso effettuare acquisti all’estero in regime di esenzione, rischiando dunque di danneggiare anche l’economia nazionale.
Altro tema molto spinoso è poi quello dell’adeguamento degli indici di redditività previsti per la verifica dei presupposti per le società di comodo, laddove, soprattutto nel settore immobiliare, i rendimenti previsti per i cespiti sono ormai lontani da quelli di mercato.

Tutte le imprese interessate da tale disciplina devono compilare l’apposito prospetto contenuto nella dichiarazione dei redditi, nel quale è richiesta l’indicazione dei dati necessari per effettuare la verifica dell’operatività, e presentare l’istanza di interpello qualora intendano disapplicarla.

L’obiettivo è quello di evitare vantaggi fiscali dall’uso di schermi societari per utilizzo personale di beni aziendali o di società di comodo.

Tale obiettivo sarebbe del resto comunque raggiunto mediante l’abolizione dell’attuale disciplina e la sua sostituzione con una espressa previsione che ai fini delle imposte sui redditi l’attività delle società “di mero godimento” non dà luogo a reddito d’impresa e l’imposizione avviene nei riguardi dei soci.

L’attività di controllo avverrebbe, in tal modo, congiuntamente a quella effettuata ai fini dell’Iva con riguardo alle società di mero godimento, alle quali è negata la detrazione dell’imposta sugli acquisti, senza che si verifichino rilevanti conseguenze in termini di gettito.
Peraltro, l’utilizzo di una “società senza impresa” potrebbe di per sé consentire di disconoscere l’inerenza dei costi sostenuti dalla stessa, non essendo posta in essere un’effettiva attività d’impresa, ma trattandosi di un occultamento della reale attività non imprenditoriale, consistente nel “godimento privato” dei beni.

Si ricorda poi, come detto, che, ai fini dell’Iva, le società “di mero godimento” non sono considerate esercitare un’attività d’impresa, anche in deroga alla presunzione assoluta di commercialità riguardante le società di capitali e quelle commerciali di persone nonché gli enti commerciali.

L’art. 4, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972 stabilisce, infatti, che non è detraibile l’Iva pagata da società ed enti per l’acquisto di beni (unità immobiliari classificate o classificabili in categoria catastale A - tranne A10 - e loro pertinenze, unità da diporto, aeromobili da turismo o qualsiasi altro mezzo di trasporto ad uso privato e complessi sportivi o ricreativi, compresi quelli destinati all’ormeggio, al ricovero e al servizio di unità da diporto) che vengono gestiti e messi a disposizione dei soci e partecipanti, e dei loro familiari, gratuitamente o a fronte di un corrispettivo inferiore al valore normale. Tale disposizione si applica anche se il godimento, personale o familiare, dei beni o degli impianti sia conseguito indirettamente dai soci o partecipanti anche attraverso la partecipazione ad associazioni, enti o altre organizzazioni. Si tratta, peraltro, di ipotesi diverse dall’autoconsumo familiare o dall’assegnazione dei beni ai soci, perché i beni stessi non fuoriescono dal regime d’impresa.

Sarebbe, quindi, opportuno coordinare le due discipline, potendosi anche semplicemente stabilire che ai fini delle imposte sui redditi l’attività delle società “di mero godimento” non dà luogo a reddito d’impresa e che l’imposizione debba avvenire nei riguardi dei soci. L’attività di controllo avverrebbe, in tal modo, congiuntamente ai fini dell’Iva e delle imposte sui redditi.

Tale abolizione sarebbe oggi resa ancor più semplice dalla norma sull’abuso del diritto, anche considerato che l’istituto dell’abuso del diritto può costituire un argine sufficiente per prevenire e reprimere i comportamenti che cercano di utilizzare impropriamente la forma societaria per la finalità di conseguimento di vantaggi fiscali indebiti, costituiti per lo più dal riconoscimento della deduzione di costi sostenuti in difetto di inerenza ad un’attività d’impresa e quindi dissimulanti spese private afferenti utilizzi personali a cui si riferiscono.

E, ultimo intervento, ma più importante di tutti: concentrare tutte le disposizioni che riguardano i contribuenti in un (vero) Testo unico delle imposte sui redditi, dando così un corpo unificato di disposizioni da prendere a riferimento, senza dover cercare la disciplina in centinaia di provvedimenti, ad oggi completamente autonomi e separati.

Sono naturalmente solo alcuni “spot”, ma già sarebbe un buon programma di lavoro.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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