13 marzo 2013

Avvocati & Cassa. Compensi da CDA

Sentenza della Cassazione Lavoro

Autore: Redazione Fiscal Focus
Il reddito percepito dall’avvocato quale componente di un consiglio di amministrazione o per la sua partecipazione al consiglio di amministrazione di una società di capitali non può essere considerato di natura professionale e come tale soggetto a contribuzione previdenziale alla Cassa Forense. Ciò soprattutto ove si tratti di un incarico di durata limitata e che potrebbe essere svolto anche da un soggetto non in possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato.

La sentenza. È quanto emerge dalla sentenza n. 5975/13 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione.

Il caso.
Un avvocato ha impugnato davanti al Tribunale di Salerno la cartella di esattoriale con cui gli era stato ingiunto il pagamento, a favore della Cassa Nazionale di Assistenza e Previdenza Forense, della somma di 4.477 euro a titolo di contributi per gli anni 1992 – 2002.

I giudici di merito. L’opposizione spiegata dal legale è stata parzialmente accolta dal Tribunale. Tale decisione è stata successivamente confermata dalla Corte di appello, la quale ha ritenuto che l’attività di consigliere di amministrazione di una società di capitali non sia ricollegabile all’esercizio della professione forense, con la conseguenza che i relativi redditi non possono essere assoggettati a contribuzione a favore della Cassa Forense. A maggior ragione se, come nel caso di specie, il professionista ha partecipato solo sporadicamente alle sedute del CDA e se le delibere assunte nel corso dell’incarico hanno riguardato l’attività industriale della società.

La Corte. Ebbene, la Cassa Forense ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, ma senza successo. Gli Ermellini hanno convenuto con il giudice di merito sul fatto che nel caso esaminato non vi fossero elementi concreti per sostenere che i redditi in questione, derivanti dall’attività di consigliere di amministrazione di una società capitali, potessero in qualche misura ricondursi all’esercizio dell’attività professionale di avvocato, non essendo emerso che la partecipazione del resistente all’attività del CDA avesse mai richiesto le stesse competenze tecniche di cui il professionista ordinariamente si avvaleva nell’esercizio dell’attività professionale.

Attività “estranee” alla professione
. Pur ammettendo che il concetto “di esercizio della professione” non può più essere interpretato in senso statico e rigoroso in forza dell’evoluzione subita nel mondo contemporaneo delle specifiche competenze e dalle cognizioni tecniche libero-professionali, la Suprema Corte ha ribadito l’indirizzo in base al quale, per tutte le categorie professionali, la sussistenza dell’obbligo contributivo sussiste solamente nel caso in cui sia in concreto ravvisabile “un intreccio tra tipo di attività e conoscenze tecniche tipiche del professionista” così come suggerito dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 402 del 1991, resa a proposito del contributo integrativo dovuto dagli avvocati e procuratori iscritti alla Cassa; sentenza nella quale la Consulta ha esplicitamente affermato che il prelievo contributivo è collegato all’esercizio professionale e che tale deve intendersi anche la prestazione di attività riconducibile, per sua intrinseca connessione, ai contenuti dell’attività propria della libera professione. Ne deriva che il prelievo contributivo è giustificato per le sole prestazioni contigue, per ragioni di affinità, a quelle libero-professionali in senso stretto, rimanendone invece escluse quelle che con queste non hanno nulla in comune.

Condanna alle spese. In conclusione, la Sezione Lavoro della Cassazione ha condannato la Cassa Nazionale di Assistenza e Previdenza Forense alla rifusione delle spese lite, liquidate in 1.840 euro oltre accessori di legge.
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