Se la finalità è quella di comprimere la possibilità di recesso del lavoratore durante un periodo determinato, vincolandola – a determinate condizioni – alla permanenza in azienda, vediamo ora quali sono le limitate ipotesi di recesso legittimamente consentite per il lavoratore.
La logica della tutela garantita è pressoché simile a quella prevista nel rapporto di lavoro a tempo determinato, dovendo, in ipotesi di recesso anticipato al di fuori dell’ipotesi di giusta causa, il lavoratore inadempiente risarcire la controparte per avere interrotto anticipatamente il rapporto rispetto alla scadenza naturale.
Dunque, coerentemente con lo spirito delle suddette clausole, essendo il contratto di lavoro vincolato ad una determinata durata, i casi di recesso sono limitati alle sole fattispecie di:
- Giusta causa;
- Impossibilità sopravvenuta nell’esecuzione della prestazione.
Dunque resta pacifico che in presenza di una giusta causa di recesso, venendo in rilievo la norma inderogabile di cui all’art. 2119 c.c., le suddette clausole accessorie non trovano applicazione.
In analogo modo, il patto risulta inefficace anche nelle ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione, come ad esempio nel caso di detenzione del dipendente e di una conseguente impossibilità di rendere la prestazione lavorativa (Cass. n. 6714/2021).
In tutte le altre circostanze, il recesso si configura come illegittimo e comporta il versamento della penale eventualmente prevista dal patto. In alternativa il risarcimento del danno è determinato dal giudice, eventualmente stabilito nei costi sostenuti dal datore di lavoro per la formazione erogata.
Resta fermo che, decorso il termine del patto di stabilità, le parti possono recedere liberamente dal vincolo contrattuale, nel rispetto del periodo di preavviso eventualmente previsto e delle normative vigenti in tema di recesso.