12 aprile 2025

Amministratori senza delega. Nessun automatismo tra carica ricoperta e responsabilità penale

Autore: Paola Mauro
Affinché il Presidente del Consiglio di amministrazione di una società poi fallita possa essere condannato in relazione al reato di bancarotta per effetto di operazioni dolose, con riferimento al periodo in cui è rimasto privo di poteri gestori, deve essere raggiunta la prova dell’effettiva…

Il caso

Molto brevemente, il fallimento della società in questione è stato provocato dalla sistematica evasione fiscale e contributiva. È così venuto a configurarsi il reato di bancarotta impropria da operazioni dolose di cui all'articolo 223, comma 2, n. 2, L.F. in capo all’intero Consiglio di amministrazione, ivi compresa la sua Presidente, che però ha fatto ricorso presso i giudici di legittimità, che le hanno dato ragione, rinviando la causa alla Corte d'Appello di Firenze per il rinnovo della pronuncia.

I fatti in contestazione si sono svolti tra il 2005 e il 2012, e la Difesa, nel ricorso in Cassazione, a efficacemente dedotto che la sentenza d'appello non ha adeguatamente considerato la circostanza secondo cui, fino al giugno 2009, l'imputata era sprovvista di poteri di gestione della società, sicché non avrebbe potuto esserle ascritto il reato in questione.
Al riguardo, gli Ermellini hanno evidenziato che l'intero periodo oggetto di imputazione andava, in effetti, suddiviso giudici di merito in due parti: la prima in cui la ricorrente era solo presidente del consiglio di amministrazione della fallita, senza delega alcuna e, anzi, mentre la delega ad occuparsi anche del pagamento delle imposte era in capo a un altro soggetto; la seconda, relativa al periodo in cui l'imputata è rimasta l'unica ad amministrare la fallita.

Gli Ermellini hanno ricordato che, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il concorso per omesso impedimento dell'evento dell'amministratore privo di delega è configurabile quando, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle condotte illecite tenute dai consiglieri operativi in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerge la prova, da un lato, dell'effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quantomeno, di segnali d’allarme inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l'accettazione del rischio del verificarsi dell'evento illecito e, dall'altro, della volontà, nella forma del dolo indiretto, di non attivarsi per scongiurare detto evento, dovendosi infine accertare, sulla base di un giudizio prognostico controfattuale, la sussistenza del nesso causale tra le contestate omissioni e le condotte delittuose ascritte agli amministratori con delega. Tanto, al fine di evitare che siano pronunciate condanne basate su una responsabilità di posizione ovvero fondate su un rimprovero per colpa anziché per dolo, come richiesto per l'integrazione della fattispecie di bancarotta ex artt. 216 e 223 legge fallimentare.
La Suprema Corte ha aggiunto che gli amministratori senza delega, alla luce della riforma del diritto societario, non hanno più un obbligo generale di vigilanza sulla gestione attuata dagli organi delegati, atteso che l'articolo 2392 secondo comma del codice civile non prevede più che siano solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione, ma che lo siano solo ove, a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non abbiano fatto quanto potevano per impedire il compimento o eliminare o attenuarne le conseguenze dannose. E ciò vale anche per il presidente del CDA.

Nel caso di specie - chiosa il Supremo Collegio -: «la Corte territoriale omette del tutto di chiarire in base a quali elementi probatori possa affermarsi che la (omissis) sia concretamente venuta a conoscenza che i debiti verso l'erario venissero sistematicamente pretermessi a vantaggio di altri creditori, nel periodo in cui non aveva alcun concreto potere gestore, appannaggio di altri soggetti. (...).»
In sede di rinvio, dunque, la Corte d'Appello di Firenze, in diversa composizione, dovrà necessariamente acclarare e adeguatamente motivare – puntualizzano i Massimi giudici - «se vi fosse, sulla base degli elementi in atti (analizzando ad esempio eventuali verbali del consiglio di amministrazione e le tematiche emerse in siffatto consesso), in capo all'imputata e nel periodo in cui era solo presidente del consiglio di amministrazione della società poi fallita, senza poteri gestori, l'effettiva conoscenza dei fatti in contestazione (ovvero di sistematico inadempimento del pagamento dei debiti istituzionali) o, almeno, la sua certa percezione di segnali di allarme inequivocabili, dalla stessa volutamente ignorati, con accettazione del rischio che l'evento di bancarotta poi determinatosi si verificasse: scongiurando, così, il pericolo di un addebito per colpa (inettitudine, incapacità o imprudente fiducia dell'imputata nell'agire dei delegati) o, addirittura, per responsabilità oggettiva da posizione, pacificamente escluso dalla giurisprudenza più recente di questa Corte.»
Vuoi avere accesso a tutti i contenuti riservati e agli articoli di "Quotidiano"?