12 marzo 2021

Ecco perché la proroga della cassa integrazione fa parte di una menzogna collettiva

Autore: Direttore Antonio Gigliotti
Nel 2020, le economie del G20 hanno stanziato 10 trilioni di dollari nella forma di sostegni pubblici.

Per dare una dimensione dell’intervento pubblico si tratta di tre volte quanto stanziato a seguito della crisi del 2008 e ben 30 volte quanto previsto dal Piano Marshall per ricostruire l’Europa a seguito del secondo conflitto mondiale.

Gran parte di questi soldi sono finiti al settore privato per evitare licenziamenti di massa e permettere a milioni di persone che sarebbero altrimenti rimaste senza reddito di potere continuare a sostenere il loro stile di vita senza eccessivi stravolgimenti.

In questo modo le aziende non sono state messe nella condizione di tagliare i costi-fissi in proporzione alle perdite che hanno dovuto affrontare.

La pandemia non ha colpito tutti i lavoratori in maniera trasversale.

Tra le categorie che sono risultate molto più vulnerabili di altre abbiamo quelle rappresentate dai lavoratori poco qualificati, dalle donne, dalle minoranze etniche e dai giovani.

Categorie che all’allentamento delle misure di sostegno pubblico, in particolare quelle della cassa integrazione dovranno fare i conti con una pandemia che ha cambiato interi stili di consumo e stravolto interi settori.

E’ proprio il McKinsey Global Institute a segnalare come 100 milioni di persone dovranno cambiare lavoro al termine di questa pandemia.
Il lato negativo di tutti questi aiuti a cascata è stato quello di tenere il lavoratore in cassa integrazione fuori dal mercato del lavoro per troppo tempo senza prendere in considerazione che maggiore è il tempo in cui un lavoratore dispone di questa forma di welfare, più difficile sarà reintegrarlo nel mondo del lavoro. Figuriamoci nella sua azienda.

Per questo motivo, alcuni Paesi previdenti hanno agito nell’immediato sulla base delle profonde trasformazioni che la pandemia ha causato al mercato dei consumi e di riflesso quello del lavoro.

Da una parte abbiamo Singapore che si è impegnato ad affiancare le imprese a ri-formare 330 mila lavoratori che l’automazione e la digitalizzazione provocate dalla pandemia avrebbero espulso dal mercato del lavoro. Dall’altra abbiamo l’Australia, in cui il Ministero dell’Istruzione ha siglato un accordo per la riduzione del costo della formazione universitaria dal 50 al 74% per specializzazioni ad alta richiesta che vanno dall’infermieristica all’IT, con l’unico fine di ridurre il tempo di riassorbimento della forza lavoro con competenze non più in linea con quelle richieste dal mercato.

Provvedimenti che possono essere presi solo da persone che hanno abbastanza coraggio di dire la verità.
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