15 giugno 2013

PROFESSIONISTI E FANATISMO FISCALE

A cura di Antonio Gigliotti

Cari amici e colleghi, nel passato era convinzione comune (peraltro anche logicamente fondata) che vigesse l’obbligo di comunicare al Fisco tutto il reddito prodotto col proprio lavoro, tutto fino all’ultimo centesimo, e adoperarne buona parte al fine di rispettare gli adempimenti di natura tributaria e contributiva. Una volta regolarizzati questi ultimi step, potevamo dirci padroni del reddito rimanente e finalmente liberi di spenderlo a nostro piacimento. Pensavamo, forse ingenuamente, che un volta dichiarato il reddito, quindi facendolo convogliare sul conto, al netto delle imposte fosse possibile prelevare dallo stesso conto corrente (anche in contanti) le somme ogni qual volta se ne presentasse la necessità.

Illusi! Non è così! A ricordarcelo, qualche settimana fa, una disposizione della CTR di Roma (rinviata alla Corte Costituzionale) che ha riproposto il problema, assurdo e mai affrontato seriamente, relativo agli accertamenti di cui all’art. 32 del D.P.R. 600/73. Secondo la citata disposizione, chi ha prodotto un reddito d’impresa o di lavoro autonomo deve documentare all’Amministrazione Finanziaria soprattutto gli utilizzi del contante prelevato dal conto sul quale il reddito era stato depositato. Ciò perfino a distanza di anni dal prelevamento! Il motivo è che tutte le somme prelevate e non giustificate potrebbero trasformarsi in incassi in nero.

Ma proviamo a inquadrare meglio la situazione. La norma era originariamente limitata agli imprenditori. Quindi, se un soggetto (imprenditore), dopo aver depositato in banca gli incassi ed ha regolarmente dichiarato il suo reddito, preleva del contante, questo denaro potrebbe poi essere utilizzato per fare acquisti in nero con conseguenti ricavi altrettanto oscuri. Per farla breve, se un barista, dopo aver versato 100 in banca, effettua un prelievo in contanti di 50, la suddetta presunzione potrebbe affermare che questo importo sia funzionale all’acquisto di bibite in nero che il barista rivenderebbe, a sua volta, in nero.

Nel 2005 la disposizione è stata estesa anche ai professionisti. Su una simile estensione al mondo professionale si è sempre mostrata una certa “perplessità”, perché non si capisce quale reddito sommerso potrebbe produrre il professionista che preleva del contante dal proprio conto in banca.

Pensate un po’ che mi son trovato a dover cercare di giustificare dei prelevamenti che un professionista aveva fatto con il suo bancomat. L’Ufficio, con un foglio excel, contestava al mio assistito di aver prelevato un tot di contanti. Il periodo di indagine era riferito a tre anni prima, potendo andare sino a quattro.

La norma parte da un principio sano: il nero alimenta il nero. Tuttavia la cosa incredibile (per i soli possessori di partita Iva) è l’inversione dell’onere della prova. È il professionista che deve dimostrare al Fisco come ha utilizzato il contante prelevato! Quindi se durante il 2011 abbiamo prelevato 15.000 euro (circa 1.200 euro al mese) a fronte di un reddito dichiarato di 50.000 euro, potremmo trovarci nella condizione di dover giustificare il modo in cui li abbiamo spesi.

L’Agenzia delle Entrate con la circolare 32/2006 ha specificato che la presunzione in rassegna non viene applicata qualora i prelievi non giustificati siano esigui, occasionali o comunque coerenti con il tenore di vita rapportabile al volume di affari dichiarato dal contribuente. Bene, ma qual è il metro che dovrà essere utilizzato per stabilire se un certo importo prelevato in contanti è coerente o meno con il reddito dichiarato? Non vi sembra che vi sia ancora una volta un eccesso di discrezionalità in capo all’ufficio?

È una norma slegata dalla realtà e dal contesto operativo nel quale la si vuole a tutti i costi applicare. È giunto il momento di metterci mano in maniera seria, onde evitare di essere costretti a impiantare ardue difese nel momento in cui l’ufficio in sede di controllo del conto corrente vorrà sapere cosa ne abbiamo fatto di quella ben precisa somma prelevata in contanti… Magari il prelievo è avvenuto tre anni prima per l’acquisto di una bicicletta a nostro figlio! A quel punto probabilmente non ci ricorderemo neanche dell’acquisto, però dovremo in qualche modo giustificare il nostro comportamento che ritenevamo erroneamente irreprensibile.

Ecco, forse dovremmo far capire ai nostri governanti che anche i professionisti possono trovarsi a corto di contante, che non stanno sempre lì a registrare le proprie uscite e che in qualche modo dovranno pur farla la spesa al supermercato senza portarsi dietro il bancomat o il blocchetto degli assegni!!!

“Non esiste razionalità senza senso comune e concretezza. Senza senso comune e concretezza la razionalità è fanatismo”, scriveva Pier Paolo Pasolini. Cosa c’entra questa riflessione con quanto finora illustrato? Ebbene, i legislatori del nostro Paese intendono risolvere i problemi applicando quella che essi definiscono ‘razionalità’. È quindi ‘razionale’ chiedere di giustificare ogni spesa che paghiamo in moneta sonante? Non credo. Questa è una pseudo-razionalità che non prende in considerazione né il senso comune né la concretezza. Pasolini lo chiamava ‘fanatismo’. Secondo me, è ‘fanatismo fiscale’.
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