La Cassazione torna sul tema dell’”adozione mite” con una nuova pronuncia – la n. 35840/2021, depositata lo scorso 22 novembre - ribadendo quanto già sostenuto in precedenza, in particolare con la prima e rivoluzionaria ordinanza n. 1476/2021, depositata il 25 gennaio 2021, che – in linea di continuità con quanto già accade in altri Paesi europei - ha dato cittadinanza a tale istituto.
Si tratta, dunque, di una figura di matrice giurisprudenziale, che va ad aggiungersi alle preesistenti forme di adozione previste dall’attuale normativa, collocandosi in una posizione “mediana”.
Andiamo per ordine:
Nel nostro ordinamento giuridico l’adozione assolveva, storicamente, la funzione di dare una discendenza a chi non ne avesse, assicurandogli così la continuità del nome e del patrimonio familiare. Ne veniva dunque disciplinata una sola forma – c.d. ordinaria -, che poteva riguardare sia soggetti maggiorenni che minorenni (ma in tal caso era necessario che l’adottante avesse più di cinquanta anni rispetto all’adottato e che non avesse altri figli legittimi).
A tutela dell’infanzia abbandonata esisteva, invece, l’istituto dell’affiliazione, che non instaurava alcun rapporto di filiazione con l’affiliante (che peraltro poteva essere anche singolo) e che poteva essere revocata in qualsiasi momento.
Nella moderna concezione che ne evidenziava la finalità assistenziale – mutuata, peraltro, dai principi sanciti con la Convenzione di Strasburgo del 1967 (Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali) -, l’adozione fu invece introdotta nell’ordinamento italiano con la legge n. 431 del 1967, che disciplinò la c.d. “adozione speciale”, mirante ad ovviare alla situazione di abbandono d’un minore mediante il suo inserimento in una famiglia che potesse provvedere alla sua cura, alla sua istruzione e al suo mantenimento.
Detta legge venne poi riformata con la n. 184 del 1983 (a sua volta successivamente modificata dalla legge n. 149 del 2001) che è tutt’oggi quella vigente. Nel codice civile è invece rimasta unicamente l'adozione dei maggiorenni, istituto che ha sostituito la vecchia adozione ordinaria.
La legge 184/1983 ha previsto, dunque, due tipi di adozione: l’adozione piena o legittimante e l’adozione in casi particolari.
La prima ha come presupposto lo stato di adottabilità (art. 7), che deriva dalla situazione di abbandono del minore. Per effetto di tale adozione (che è comunque preceduta da un periodo di affidamento preadottivo): l’adottato acquista lo stato di figlio degli adottanti; ne acquista e trasmette il cognome; cessano i rapporti con la famiglia naturale, rispetto alla quale permangono solo i divieti di matrimonio tra parenti.
La seconda (art. 44), invece, non presuppone lo stato di adottabilità e non postula la cesura dei rapporti con la famiglia originaria. Può quindi essere effettuata:
- a. da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di padre e di madre;
- b. dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell'altro coniuge;
- c. quando il minore sia affetto da handicap e sia orfano di padre e di madre;
- d. quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento.
In tali casi l’adozione è consentita anche in presenza di figli; inoltre, nei casi di cui alle lettere a), c), e d) è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato.
La Cassazione ha, infine, fatto – come accennato - un ulteriore passo in avanti: interpretando estensivamente l’art. 44 lettera d) della legge 184/1983, con la citata ordinanza n. 1476/2021 è giunta ad elaborare la cosiddetta “adozione mite”.
Secondo la suprema Corte, l’indicata lettera d) dell’art. 44 va considerata come una clausola di chiusura e si applica in caso di abbandono semipermanente o abbandono ciclico (è il caso, ad esempio, dei genitori tossicodipendenti) dei minori. In tali casi, pur sussistendo una inidoneità dei genitori biologici a prendersi cura del figlio, permane l’opportunità di mantenere con essi il rapporto, in ragione dell’affetto e dell’interesse mostrato verso il minore. Il giudice perciò, nell’affidare quest’ultimo ad una nuova famiglia, dovrà valutare caso per caso la sussistenza (o meno) del suo interesse a mantenere i rapporti con i genitori biologici. L’adozione legittimante deve infatti considerarsi solo come ultima risorsa e laddove tale interesse non sia ravvisabile. Con l’indicata ordinanza n. 1476 la Cassazione ha dunque enunciato il principio di diritto secondo cui:
"L'adozione cd. "legittimante", che determina, oltre all'acquisto dello stato di figlio degli adottanti in capo all'adottato, ai sensi della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 27, comma 1, la cessazione di ogni rapporto dell'adottato con la famiglia d'origine, ai sensi del comma 3, coesiste nell'ordinamento con la diversa disciplina dell'"adozione in casi particolari", prevista dalla L. n. 184 del 1983, art. 44, che non comporta l'esclusione dei rapporti tra l'adottato e la famiglia d'origine; in applicazione dell'art. 8 CEDU, art. 30 Cost., L. n. 184 del 1983, art. 1 e art. 315 bis c.c., comma 2, nonché delle sentenze in materia della Corte EDU, il giudice chiamato a decidere sullo stato di abbandono del minore, e quindi sulla dichiarazione di adottabilità, deve accertare la sussistenza dell'interesse del medesimo a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, costituendo l'adozione legittimante un'"extrema ratio" cui può pervenirsi nel solo caso in cui non si ravvisi tale interesse; il modello di adozione in casi particolari, e segnatamente la previsione di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 44, lett. d), può, nei singoli casi concreti e previo compimento delle opportune indagini istruttorie, costituire un idoneo strumento giuridico per il ricorso alla cd. "adozione mite", al fine di non recidere del tutto, nell'accertato interesse del minore, il rapporto tra quest'ultimo e la famiglia di origine".
La recente ordinanza 35840/2021, indicata in principio di questo commento, ribadisce tale orientamento: l'adozione mite è la scelta da preferire in tutti quei casi in cui il legame con la famiglia di origine non è contraria agli interessi del minore. La famiglia, anche se carente, ha un ruolo positivo sulla vita dei figli, e non può dunque essere nell'interesse dei minori la decisione di recidere in modo definitivo questo rapporto. L’adozione mite, a differenza di quella legittimante, consente appunto che il vincolo di filiazione giuridica si sovrapponga a quello di sangue, senza estinguerlo, anche se l'esercizio della responsabilità genitoriale spetta all'adottante.
Il termine legale di durata massima del periodo di adozione mite è di due anni, sebbene è possibile che venga ridotto - qualora i genitori biologici si riprendano al punto tale di tornare ad essere abbastanza stabili, forti e capaci di tornare ad esercitare la propria facoltà genitoriale - come pure è possibile che venga prorogato.
La differenza con l'affido preadottivo è evidente: la durata di quest’ultimo è di un anno e il suo scopo è quello di sondare, nell'interesse del minore, l'attitudine degli aspiranti genitori a educare, istruire e mantenere l'adottando; costituisce, dunque, un passaggio intermedio e sperimentale, il cui esito positivo conduce all'adozione del minore.
Resta peraltro la questione morale ed il conseguente dubbio: una volta provata una condizione transitoria di maggior cura e accudimento - come quella sicuramente offerta dalla famiglia accogliente - non si corre forse il rischio di innescare una pericolosa competizione tra quest’ultima e la famiglia biologia, col rischio – per il minore – di subire il trauma di un eventuale ritorno a casa propria?