Il “pasticciaccio brutto” degli autovelox inizia con una recentissima sentenza della Cassazione, la n. 10505, che ribaltando la circolare n. 8176/2020, in cui il concetto di approvazione era assimilato al quello di omologazione, ha accolto il ricorso presentato da un automobilista di Treviso beccato mentre viaggiava a 97 km orari sulla strada regionale n. 53, un tratto in cui il limite è fissato a 90, ma con la foto che provava l’infrazione immortalata da un autovelox non omologato.
Insomma, la sentenza degli Ermellini ha fatto chiarezza sull’approvazione ministeriale e l’omologazione, due passaggi considerati necessari e fondamentali per garantire la perfetta taratura dei rilevatori di velocità, ma per un tipico “vuoto normativo” tipicamente italiano mancano ancora specifiche norme attuative per l’omologazione, nella maggior parte dei casi sostituita da una non meglio chiarita “Determina dirigenziale di approvazione” dal valore legale nullo. In pratica, l’omologazione serve per accertare che il sistema rispetti i requisiti previsti, mentre l’approvazione certifica che il prototipo segua gli standard definiti, per evitare differenze di rilevazione della velocità fra un apparecchio e l’altro. Risultato, per stessa ammissione di fonti interne del Ministero, la maggioranza degli autovelox funzionanti in Italia sono approvati ma – accidenti - del tutto privi di omologazione.
Come spesso accade, pronunciandosi su un solo caso, la Cassazione ha finito per fare da giurisprudenza, scatenando potenzialmente un vero e proprio tsunami di migliaia ricorsi in tutt’Italia, possibili a patto che non sia stata versata la sanzione, dettaglio che rende la controversia ormai chiusa a doppia mandata per acquiescenza.
Il primo passaggio per capire se la multa rilevata con uno degli 11.292 autovelox italiani (al terzo posto nel mondo dopo i 18.425 della Russia e i 17.910 del Brasile), è valida o meno consiste nel verificare se l’apparecchio che l’ha emessa è omologato, informazione che insieme alla taratura va riportata obbligatoriamente sulla contravvenzione, e che i Comuni spesso rendono pubblici online. Sovente, può anche essere sufficiente inserire il numero dell’autovelox su un motore di ricerca per verificare se esistono pronunce o contestazioni passate riferite all’apparecchio, o ancora chiedere un accesso agli atti.
Anche se in realtà, come ha ammesso “Eltraff”, società che realizza e commercia rilevatori di velocità, nessun autovelox italiano può di fatto essere omologato, semplicemente perché “Nessuno è in grado di rilasciare certificati di omologazione, mancando del tutto gli standard europei e nazionali”.
Comunque sia, nel caso l’autovelox rientri nella categoria degli omologati ma non approvati, due sono le possibilità per far valere i propri diritti: primo, presentare ricorso (gratuito) al Prefetto entro 60 giorni, con l’aggravante che in caso di perdita la sanzione raddoppia, mentre con la vittoria spese legali e rimborso delle marche da bollo sarebbero a carico del Comune. La seconda opzione consiste invece nel rivolgersi al giudice di Pace entro 30 giorni aprendo un contenzioso che chiama in causa il Comune o l’ente che ha installato l’apparecchio, richiedendo accertamenti tecnici che potrebbero anche portare a scoprire qualche difetto di funzionamento, oltre alla mancata omologazione.
Lo scorso anno, secondo i dati di Facile.it basati su “Siope”, il sistema informativo delle operazioni degli enti pubblici, le multe per violazioni della strada hanno fruttato ai Comuni italiani un bottino pari a di 1,5 miliardi di euro. Nel dettaglio, Milano, Roma e Firenze sono i Comuni che hanno incassato le somme più alte, portando nelle casse comunali rispettivamente 147, 138 e 71 milioni di euro. A seguire Genova (35,2 milioni di euro), Bologna (31,6 milioni), Napoli (22,1 milioni), Padova (21,3 milioni) e Verona (20,6 milioni).