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Buchi neri e involucri vuoti

Autore: Ester Annetta
Ad Harry, Hossain Fasal, Aymen Mekni, Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, Moussa Balde.
Sono nomi quasi impronunciabili e perlopiù non raccontano alcunché.

Forse l’ultimo, quello di Moussa Balde, può richiamare alla mente la sua vicenda, se non altro perché accaduta abbastanza recentemente.

Era un 23enne originario della Guinea, viveva a Ventimiglia senza fissa dimora, campando di elemosina. Era arrivato in Italia nel 2017 come richiedente asilo, con l’intenzione di andare poi in Francia. Accolto nel CAS di Imperia, aveva presto imparato l’italiano e preso la licenza media. Era pieno di speranze per il suo futuro. Ma le cose non erano andate come credeva: respinto più volte dalla Francia si era lasciato andare poco alla volta, arreso al fallimento dei suoi progetti. Era perciò finito a mendicare e a dormire per strada. Lo scorso 9 maggio, tre cittadini italiani lo avevano accerchiato e preso a bastonate mentre chiedeva l’elemosina davanti ad un supermercato. Uno dei tre asseriva che avesse tentato di rubargli il telefonino. Moussa era stato ricoverato a causa delle percosse subite e, frattanto, era stato raggiunto da un decreto di espulsione perché risultato privo di permesso di soggiorno. Quindi era stato trasferito al Centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) di Torino, messo in isolamento e abbandonato a se stesso, ai suoi fantasmi, alla sua solitudine. Dieci giorni dopo si era tolto la vita.

Moussa e le altre persone (tutti di età compresa tra i 20 ed i 30 anni) il cui nome è sopra elencato assieme al suo, hanno avuto la stessa sorte: sono “morti negli ultimi due anni nei CPR, mentre erano detenuti senza aver commesso alcun reato. Colpevoli di viaggio.”

È questa l’indicazione, dura e drammatica, che si legge sull’intestazione del report appena realizzato dalla CILD - Coalizione italiana libertà e diritti civili (organizzazione no profit che lavora per difendere e promuovere i diritti e le libertà di tutti), intitolato “Buchi Neri. La detenzione senza reato nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR)”.

Un rapporto che, a ben vedere, non scoperchia alcun vaso di Pandora, confermando, anzi, dati già noti da tempo e da ultimo rilevati a marzo dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, pubblicati nel Rapporto sulle visite effettuate nei Cpr nel corso degli anni 2019 e 2020. Allora, per descrivere il quadro desolante di quei Centri, non di buchi neri si è parlato ma di “involucri vuoti”, a volerne rimarcare l’assenza totale di attività, di sostegno sanitario e di sufficienti standard abitativi e igienico-sanitari, nonché l’isolamento: “un sistema inefficace che viola i diritti umani di persone che perdono la propria identità per essere ridotte a corpo da trattenere e confinare”.

Una breve parentesi sulla storia e la funzione dei CPR si rende qui opportuna:
tali strutture vennero create nel 1998 con la Legge 6 marzo 1998, n. 40, meglio nota come legge Turco-Napolitano; allora si chiamavano Ctp (Centri di permanenza temporanea). La normativa “legittimava” la pratica della privazione della libertà sulla base di un provvedimento amministrativo, stabilendo che laddove non fosse stato possibile - per la necessità di soccorrere o identificare lo straniero giunto sul suolo italiano o rintracciato in stato di irregolarità - eseguire immediatamente il provvedimento di respingimento alla frontiera o l’espulsione tramite accompagnamento coatto, il Questore potesse disporre il “trattenimento” del soggetto per un periodo massimo di 30 giorni in un Ctp.

In seguito, in virtù di altri provvedimenti normativi, i Ctp hanno cambiato nome ma non funzione: CPTA (Centri di permanenza temporanea e assistenza), CIE (Centri di identificazione ed espulsione) fino agli attuali CPR. Attualmente ne sono attivi in Italia dieci (Torino, Milano, Gradisca d’Isonzo, Roma, Bari, Brindisi, Palazzo San Gervaso (Pz), Trapani, Caltanissetta e Macomer).

La durata massima di detenzione - fissata inizialmente a 30 giorni - è andata progressivamente aumentando. Nel 2002, con la legge Bossi-Fini, il periodo è stato esteso a 60 giorni; con il decreto legge 89/2011 è arrivato fino a 18 mesi, ridotto a 3 mesi dalla legge europea 2013 bis e nuovamente innalzato 180 giorni dal decreto sicurezza nel 2018. Infine, con il decreto 130/2020 (cd. Decreto Lamorgese), il periodo di detenzione è stato riportato a 90 giorni, con la possibilità di estensione fino ad un massimo di 120.

Tale limitazione della libertà personale del soggetto irregolare è consentita in virtù dall'art.5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU) che recita: "ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti (e vi è compreso il caso di respingimento ed espulsione) e nei modi previsti dalla legge".

Viene tuttavia naturale domandarsi perché un immigrato venga trattenuto se non ha commesso alcun illecito penale: il trattenimento nei CPR è infatti legittimato solo da illeciti di tipo amministrativo come il mancato rinnovo del permesso di soggiorno e dovrebbe essere peraltro sottesa ad un rimpatrio. Sennonché, come rileva il report del Garante, nel 2019 meno del 50% dei detenuti nei CPR d'Italia è stato poi rimpatriato. Dunque perché detenere i migranti in vista di un rimpatrio che non potrà essere effettuato?

Accanto a tale criticità si pone poi quella dell’assenza di una rigida regolamentazione legislativa dei CPR, cui consegue un dilatarsi delle pratiche irregolari al loro interno ed una estensione dei rischi per la vita dei detenuti, già compromessa da mancanze strutturali (spazi spesso angusti e promiscui, privi di arredi e con varie carenze, dall'assenza di privacy per la mancanza delle porte nei bagni, ai guasti del sistema di riscaldamento); e, ancora, manca una regolamentazione sull'uso della forza degli agenti (spesso autori di sevizie e pestaggi) e sulla tutela della salute dei detenuti.

Il nodo più problematico è poi costituito dall’affidamento della gestione di tali strutture ai privati, da cui discende che, da un lato ci sono le imprese affidatarie che perseguono la massimizzazione dei profitti, dall’altro, la tendenza dello Stato a minimizzare i costi. Il tutto a discapito dei reclusi - centinaia di uomini e donne - che rischiano di essere privati non sono della loro libertà ma anche della loro dignità.

Lo stesso Garante aveva già fatto presente che "L'affidamento a privati di compiti di gestione dei CPR non esonera lo Stato dalle sue responsabilità, che non sono in alcun modo diluite dalla circostanza del non avere la gestione diretta di tali Centri”.

Nei fatti accade, invece, che persino le cure sanitarie dei trattenuti siano affidate ai privati gestori anziché al SSN, con conseguenti gravi ripercussioni sull’effettiva tutela del diritto alla salute. Spesso il ricorso a interventi farmacologici è giustificato solo dalla necessità di tenere a bada gli ospiti dei Centri al fine di renderne più agevole la gestione; oltre a ciò sono spesso illegittimamente detenuti anche soggetti affetti da patologie fisiche e psichiche che dovrebbero essere ritenute incompatibili con la vita in comunità ristretta.

Non a caso, molti dei suicidi che si sono verificati, in questi anni, nei CPR potevano e dovevano essere evitati, trattandosi di persone con evidenti disturbi psichici che non dovevano essere ritenute idonee al trattenimento.

Sarebbe forse opportuno, allora, che dell’esistenza di queste strutture fossimo tutti più consapevoli e, soprattutto, ne conoscessimo la severa realtà, che altro non fa che aggiungere altro dramma alla condizione di tanti migranti cui l’emarginazione e le privazioni sembra non dover bastare mai.

Soprattutto dovremmo chiedere scusa a Moussa e a tutti gli altri della cui morte questo sistema è responsabile.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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