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L’errore

Autore: Ester Annetta
Accanto alla foto di un giovane, con folti capelli neri, sguardo scuro e penetrante, c’è quella di un uomo più vecchio, con un’ampia stempiatura che lascia scoperta la fronte rugosa, lo sguardo che pare vagamente strabico da un occhio, gli occhiali da presbite poggiati sulla punta del naso, le labbra ritratte per coprire qualche dente mancante.

A prima vista la somiglianza non è evidente; poi, ad un’osservazione di poco più attenta, appare chiaro che si tratta della stessa persona.
Tra gli scatti delle due foto corre un lungo segmento temporale – trentatré anni – che ha trasformato il giovane nell’uomo.
Un intervallo lunghissimo, pieno di niente.

Del periodo teso tra quei due estremi non ci sono foto intermedie che possano testimoniare i progressivi cambiamenti del volto o la metamorfosi del corpo, perché di fatto, quel tempo è andato perduto e, con esso, la vita che lo ha attraversato.

Beniamino Zuncheddu quei trentatré anni li ha trascorsi in carcere, il luogo di per sé simbolo di vite interrotte e annullate, fatto di giorni tutti uguali, di solitudine e rabbia, di cieli incasellati in confini ristretti oltre i quali il resto del mondo continua a scorrere.

Solo che Beniamino in quel posto c’è rimasto da innocente.

Quello che l’ha riguardato è già diventato l’errore giudiziario finora più lungo della storia d’Italia, l’attesa più dolorosa e iniqua patita da un uomo che non ha mai voluto cedere alla lusinga di ammettere ciò che non aveva mai commesso solo per poter avere qualche beneficio sul computo della sua pena.

Si è trovato così a dover scontare l’ergastolo per un triplice omicidio – una strage, si disse allora – di cui non era stato affatto l’autore.

L’8 gennaio 1991, nelle campagne della provincia di Cagliari, qualcuno aveva ucciso in un ovile tre pastori, mentre un quarto si era miracolosamente salvato pur riportando gravi ferite. Proprio quest’ultimo che, nel corso del primo interrogatorio sostenuto durante le indagini, aveva detto di non aver riconosciuto l’assassino giacché aveva il volto coperto da una calza di nylon, aveva successivamente ritrattato, dopo che un poliziotto gli aveva mostrato la foto di Beniamino indicandolo come il colpevole.

Un vero e proprio “condizionamento” (per usare un’espressione ingentilita) che, divenuto testimonianza chiave, aveva indirizzato tutto il processo nel quale Beniamino era stato infine definitivamente condannato.

C’è voluta la revisione del processo, richiesta e accolta tre anni fa e protrattasi fino ad ora, per ottenere infine la pronuncia che ha reso giustizia - stavolta per davvero - a quell’uomo: assolto per non aver commesso il fatto.

Trentatré anni sono la metà di una vita.

Significa che Beniamino in carcere c’è entrato con i sogni di un ragazzo di 27 anni e ne è uscito non solo con le fattezze, ma con la stanchezza, la sfiducia e la rassegnazione di un uomo che sa di aver perso una fetta preziosa di esistenza che non potrà più recuperare.

Ed è stata la prima cosa che ha detto una volta libero: “Avrei voluto una famiglia, invece sono invecchiato in carcere; mi hanno rubato tutto”.

Con fin troppa leggerezza si parla di “errore giudiziario”, come se bastasse un’etichetta a circoscrivere e contenere il danno causato da un malfunzionamento della giustizia; e di “riparazione”, come se il pagamento di una somma di denaro - che l’art. 643 c.p.c. prevede debba essere corrisposta a chi sia stato vittima di quell’errore, commisurandola “alla durata dell'eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna” – potesse davvero essere bastevole a tacitare la coscienza nei suoi confronti.

Che ne sarà stato invece dei Natale, dei compleanni, delle ricorrenze, delle occasioni, delle scelte, delle persone e di tutto ciò che avrebbe potuto riempire il tempo che il carcere ha sottratto?

Può davvero il “ristoro” predicato da una fredda formula giuridica essere un sollievo adeguato e proporzionato a ciò di cui si è stati privati con una carcerazione che non spettava?

Vanno fatti i conti con la sofferenza e col dolore inferti dalla privazione della libertà; con la lesione dell’integrità psico-fisica che, inevitabilmente, un’ingiusta detenzione provoca sul fisico e sulla mente di chi la subisce; con un’esistenza definitivamente stravolta, che non sarà più la stessa nemmeno dopo che sarà stato riconosciuto l’errore giudiziario, perché la dignità demolita è difficile da ricostruire, complice anche quel frastuono mediatico che infierisce finché dura la convinzione della colpevolezza, per poi svanire repentinamente quando invece si tratterebbe di sottolineare la riconosciuta innocenza.

E quei conti non sono affatto quelli economici con cui si pretende di quantificare il ristoro.

Sono piuttosto debiti che restano in sospeso, senza possibilità alcuna di prescrizione, senza condoni e senza rottamazioni.

La legge 27 febbraio 2015, n. 18, che da ultimo ha modificato la disciplina della responsabilità civile dei magistrati (la legge n. 117 del 1988, cd. legge Vassalli) ne ha mantenuto il principio della responsabilità indiretta: non è il magistrato a rispondere in prima persona per l’errore commesso, ma l'azione risarcitoria è esperibile nei confronti dello Stato, che avrà poi diritto di regresso nei confronti del primo ove sia data la prova del dolo o della colpa grave, di certo non facile né immediata.

Ecco, forse è da qui che bisognerebbe ripartire, intervenendo con qualche ritocco, per sperare in processi e giudizi meno affrettati e meglio ponderati.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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