Sette mesi dopo averne cantato le lodi, il premier britannico Boris Johnson sta per imbarcarsi in un’impresa al limite dell’impossibile: riscrivere l’accordo Brexit che ha firmato con l’Unione Europea.
Una mossa rischiosa che potrebbe minare la credibilità internazionale del Regno Unito come partner commerciale affidabile, proprio nel momento in cui il governo sta cercando di forgiare alleanze economiche oltre l’Europa per giustificare la “global Britain” spacciata come la grande opportunità offerta dalla Brexit.
Ma BoJo ha contro il muro di gomma di Bruxelles, con una fila di funzionari che hanno gentilmente respinto la richiesta di rinegoziazione, secondo gli esperti uno sfacciato tentativo di spingere l’Unione europea ad accettare richieste che ha già respinto durante i lunghi mesi dei colloqui.
“Certamente, la questione solleva domande sull’affidabilità di questo governo. Non credo che porterà alla completa cessazione dei negoziati tra il Regno Unito e altri paesi, ma penso che li renderà un po’ più complicati”, commenta L. Alan Winters, esperto di politica commerciale presso l’Università del Sussex.
Per essere chiari, il comportamento capriccioso del governo britannico è un brutto biglietto da visita che potrebbe non essere fatale per le future alleanze commerciali, indebolendone la posizione in fase di negoziati. Partner potenziali come la Nuova Zelanda e altre nazioni del Pacifico potrebbero fare leva su modi più robusti per risolvere le controversie nel caso in cui il Regno Unito cercasse di fare marcia indietro su quanto deciso.
“Chi cerca un accordo commerciale con il Regno Unito, ha davanti probabilmente il momento migliore per ottenerlo alle condizioni che preferisce: mi riferisco a quello molto accomodante che il governo britannico ha concesso all’Australia. Sintomo che il Regno Unito si trova in un mezzo ad situazione difficile, e ha estremo bisogno di dimostrare alla propria gente che lasciare la UE è stata un’impresa utile e soprattutto vincente”.
Al momento, la strampalata richiesta del governo britannico renderà ancora più tese le relazioni con l’Unione europea, che resta di gran lunga il più grande partner commerciale del paese. Al centro della questione c’è il protocollo che riguarda l’Irlanda, incluso nell’accordo finale della Brexit per evitare il ritorno di un confine fisico tra l’Irlanda del Nord, che fa parte del Regno Unito, e la Repubblica d’Irlanda, membro dell'Unione europea.
Dopo l’accordo del Venerdì Santo del 1998 che ha portato la pace sull’isola al culmine di 30 anni di violenze e conflitti tra i nazionalisti cattolici, che vogliono un paese unificato, e i protestanti fedeli al Regno Unito, i controlli alle frontiere sono scomparsi. L’Unione Europea temeva che una barriera fisica potesse diventare ancora una volta fonte di tensione, e non avrebbe accettato di sorvegliare il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord per proteggere l’integrità del mercato UE. Johnson, che ha fatto la sua parte per far digerire la Brexit ai britannici, ha invece accettato che l’Irlanda del Nord rimanesse soggetta alle regole del mercato UE, controllando le merci che fluiscono dal Regno Unito all’Irlanda del Nord. Ma i nuovi controlli hanno creato il caos sconvolgendo le catene di approvvigionamento, aggiungendo costi alle imprese e riducendo la disponibilità di alcuni prodotti nei supermercati irlandesi. Secondo il governo, almeno 200 imprese britanniche hanno smesso di servire l’Irlanda a causa della burocrazia introdotta dalla Brexit. La scorsa settimana, la “British Generic Manufacturers Association”, organismo che riunisce i produttori inglesi di farmaci generici, ha spiegato che le nuove regole commerciali hanno costretto le aziende a ritirare oltre 2.000 farmaci dagli scaffali delle farmacie del nord Irlanda.
Per Londra il segnale di un aver messo un piede in fallo, a cui il governo britannico vorrebbe porre rimedio chiedendo “un cambiamento significativo” all’accordo con Bruxelles, riconosciuto in un documento causa della “maggior parte dell’attrito” con la UE.
“La richiesta di Londra è come leggere una causa di divorzio, piena di colpe, scaricabarile, finta tristezza e aggressività – ha sintetizzato Michael Gasiorek, esperto dell’UK Trade Policy Observatory - riflette l’infinito senso di debolezza e può solo servire a svilire la posizione internazionale del Paese”.
Ma a sette mesi di distanza dall’entusiasmo di essere “liberi” dal gioco di Bruxelles, il Regno Unito ha molte altre colpe di cui pentirsi. La Brexit ha aggiunto costi agli esportatori britannici, mettendo al tappeto il commercio con il mercato più importante e danneggiando la crescita economica nel lungo periodo. C’è un bisogno estremo di nuovi accordi commerciali per compensare alcuni dei danni causati dalla Brexit, ma se non riesce ad onorare i trattati che ha già firmato, il governo britannico potrebbe avere più difficoltà a garantire accordi a condizioni favorevoli con altri paesi, compresi gli Stati Uniti.
“Non accetteremo alcuna rinegoziazione dell’accordo - ha chiosato intanto il vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič - il rispetto degli obblighi legali internazionali è di fondamentale importanza per la credibilità di un Paese”. Un sentimento condiviso da Jacinda Ardern, premier neozelandese, paese con cui la Gran Bretagna è attualmente impegnata in colloqui commerciali e che ha il potere di favorire o impedire l’adesione del Regno Unito al “CPTPP” (Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership), un patto di libero scambio fra 11 paesi che include Messico, Australia, Canada e Singapore. Anche se non compenserà le perdite economiche derivanti dall’abbandono della UE, è stato comunque descritto dal segretario al commercio britannico Liz Truss come uno “scintillante premio post-Brexit”.
In un discorso al New Zealand Institute of International Affairs, la Ardern ha detto che la Nuova Zelanda ha accettato i negoziati che apriranno la strada all’adesione del Regno Unito al partenariato, specificando però che “coloro che aspirano ad unirsi dovranno essere in grado di soddisfare gli altissimi standard richiesti”, una sorta di avviso che secondo gli esperti aveva come obiettivo proprio il Regno Unito.
La più grande vittoria post-Brexit di Johnson sarebbe un accordo commerciale con gli Stati Uniti, ma non sembra ci sia nulla che possa farlo pensare: né Trump né Biden hanno mai avuto molta voglia di firmare trattati internazionali, preferendo pensare ad un più ampio spostamento dalla liberalizzazione del commercio. In questo, gli atteggiamenti del governo britannico non aiutano: giorni fa, il deputato democratico statunitense Brendan Boyle ha rimproverato l’approccio di Londra alla questione irlandese, sottolineando il “forte sostegno bipartisan” sull’accordo del Venerdì Santo.
“Il governo britannico ha negoziato l’accordo, lo ha accettato e il suo parlamento lo ha votato. Eppure, quasi immediatamente dopo la sua entrata in vigore, lo stesso governo ha cercato di eludere le proprie responsabilità. I cambiamenti proposti a Bruxelles seguono la tendenza e servono solo a destabilizzare ulteriormente l’Irlanda del Nord”.
Lo stesso Biden è stato molto chiaro mettendo ripetutamente in guardia la Gran Bretagna dal considerare l’accordo del Venerdì Santo una “vittima della Brexit”.
“Biden ha un interesse specifico per l’Irlanda del Nord e la sua stabilità, e vede il Regno Unito come l’antagonista – commenta Sam Lowe, ricercatore Centre for European Reform - le dispute in corso con la UE e le minacce di rinnegare gli impegni creano un grosso problema agli occhi di Washington. Diversi altri paesi sono consapevoli che il Regno Unito sta pericolosamente facendo marcia indietro, ed è qualcosa che non sarà vista come positiva, anzi”.
Intanto, a fine settembre scade il periodo “di grazia” sui controlli di alcune merci che circolano fra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord, comprese le carni refrigerate, ed è facile immaginare ulteriori polemiche tra il Regno Unito e l’Unione europea. Un’incertezza che potrebbe diventare lo status quo, ma in cui la parte peggiore del peso ricadrebbe sull’Irlanda del Nord, con conseguenze dirette anche sul sogno di Boris Johnson, che sette mesi fa immaginava una Gran Bretagna forte e compatta.