Nel giugno 2016, con i freschi risultati del referendum sulla “Brexit”, in tutto il Regno Unito avevano festeggiato con fuochi artificiali e bagni di folla per dire alla UE e guadagnarsi in cambio un futuro di prosperità senza più il “giogo di Bruxelles, con più soldi per il sistema sanitario e meno burocrazia”.
Quello che resta di quegli entusiasmi si è dissolto in otto anni disastrosi che hanno piegato in ogni modo l’economia del Regno Unito, fino ad allora uno dei Paesi UE con la maggiore crescita di Pil pro capite, disoccupazione ai minimi e una moneta fortissima, in grado di giocarsela alla pari con l’odiato Euro e il dollaro.
Otto anni a cui “Bloomberg” ha dedicato un’ampia e impietosa analisi che lascia lo sconforto di un autogol politico così clamoroso da essersi meritato un posto nei libri di storia, a imperitura memoria dei danni che può fare la classe dirigente quando diventa arrogante e testarda. L’agenzia di stampa americana non va per il sottile e inizia dalle prime avvisaglie, quelle immediatamente successive al referendum, quando la sterlina si è deprezzata di colpo del 13%. Non era che il primo campanello di allarme, seguito da dati e analisi che da allora continuano ad allargare la voragine di una sconfitta. “Sul mercato pubblico di equity in borsa, la UE sta vivendo il suo picco dal 2019. La media di bonus e incentivi che gli investitori prevedono per profitti futuri è oggi nell’eurozona di circa il 25% più alta rispetto al Regno Unito. Tra 2006 e 2019 questa cifra era invece pari a zero, segno che all’epoca gli investitori non segnalavano differenze nelle prospettive tra UK e UE”.
Alla faccia delle asfissianti catene burocratiche da cui gente come Nigel Farage e Boris Johnson avevo promesso di togliere per sempre al Regno Unito, l’economia europea – ricorda Bloomberg – “cresce del 2,3% in più su base annuale del Regno Unito. E se si cumulano i dati dal 2016, il Pil medio dell’UE è cresciuto del 24% se messo a confronto con il misero 6% di Londra”. E dire che nei dieci anni precedenti al disastro Brexit era l’esatto contrario: il resto della UE era indietro di 12 punti rispetto a quello anglosassone. E non va meglio neanche in previsione futura, se è vero che secondo gli analisti quest’anno il Pil britannico crescerà dello 0,4% e dell’1,2% nel 2025, numeri inferiori a quelli di almeno 24 Paesi UE su 27. Per tacere se invece si parla di emissioni di titoli di stato, lo scorso anno costati al Regno Unito il 2% in più di interessi rispetto a tutti Paesi UE.
Conseguenze che, come sempre accade, se sono appena percettibili dall’alto dei palazzi del potere, diventano autentici scossoni per la gente, costretta a vedersela con l’aumento dei prezzi, la riduzione della assistenza sanitaria e la qualità sempre più scarsa dei servizi pubblici, un tempo orgoglio del Paese. Tasselli di una crisi che serpeggia da anni, con buie prospettive di recessione, investimenti in fumo, stop alle esportazioni, lotte sindacali sempre più aspre che stanno per tradursi in un’ondata di scioperi e il conto di un capriccio politico che dopo otto anni, secondo Bloomberg, si aggira su 100 miliardi sterline all’anno.
Dati che usa a piene mani anche Humza Yousaf, premier scozzese successore di Nicola Surgeon, che non perde occasione di accusare Londra dei disastri della Brexit, una scelta scellerata che anche in Scozia si traduce in bassa produttività, aumento delle disuguaglianze e reddito pro capite in discesa. Quanto basta per chiedere con forza un altro referendum e rientrare immediatamente in Europa e perfino nella Nato.
Come sempre, sono i numeri a parlare chiaro, raccontando che dal 2016 a oggi, almeno una decina di Paesi europei grazie all’Unione hanno goduto di una crescita record, capace perfino di superare il 35% che rappresenta la media mondiale: Irlanda (82%), Bulgaria (78%), Lituania (71%), Estonia (66%), Repubblica Ceca (55%), Lettonia (50%), Cipro (47%), Polonia (44%), Ungheria (42%) e Croazia (41%).
Ma dati, soprattutto, che l’elettorato britannico ha riconosciuto troppo tardi, mentre i partiti – laburisti e conservatori - nei discorsi e nei programmi che quest’anno porteranno alle elezioni politiche, si tengono ben alla larga da sondaggi sempre più martellanti secondo cui il 65% rivorrebbe un referendum, ma questa volta per chiedere di poter rientrare nella UE.