23 giugno 2021

Cinque anni di Brexit, e il Regno Unito è più disunito che mai

È passato un lustro esatto dal 23 giugno del 2016, quando al referendum sulla Brexit vinse chi voleva liberarsi dell’Europa. Cinque anni dopo restano ferite ancora aperte, come le spinte indipendentiste di Irlanda e Scozia, oltre ad un piano economico che tenga conto di una realtà completamente diversa

Autore: Antonio Gigliotti
Nel 2006, la Gran Bretagna era un Paese molto diverso. Lo guidava il laburista Tony Blair, la crisi finanziaria che avrebbe devastato l’economia non era ancora neanche all’orizzonte e un deputato di nome Boris Johnson meditava di candidarsi a sindaco di Londra. Prendendo le redini dei conservatori dopo tre batoste elettorali, il filoeuropeo David Cameron si batte con i suoi chiedendo di smettere gli attacchi continui contro l’Europa, invitandoli a concentrarsi sulle “cose che interessano alla maggior parte delle persone”.

Un decennio dopo, diventato premier, Cameron punta tutto su un referendum in cui si gioca per intero l’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione europea, convinto com’era che la questione non importasse a nessuno al di fuori di Westminster. Si sbagliava di grosso.
Nelle sue idee quel voto, cinque anni fa esatti, avrebbe dovuto risolvere una volta per tutte la perenne nevrosi del Regno Unito contro l’Europa. Non poteva immaginare che la data del 23 giugno del 2016, avrebbe cambiato per sempre i rapporti fra le due sponde della Manica: il 51,89% dei sudditi di sua Maestà quel giorno vota per uscire dall’Europa, contro il 48,11% che chiede di restare.

Letteralmente scioccato, Cameron rassegna le dimissioni, ma bisognerà aspettare l’avvento di “BoJo”, l’ormai ex sindaco di Londra diventato premier, per guidare la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea, anche se con costi molto più duri di quanto chiunque potesse immaginare nel 2016. Ancora oggi, i sondaggi dimostrano che pochi inglesi ritengono che la questione sia stata completamente risolta o che lo sarà a breve. Curiosamente, mentre nel vecchio continente la Brexit è assodata e nessuno ne parla più, nel Regno Unito l’Europa è ancora motivo di discussione: i sondaggi mostrano una costante preoccupazione tanto in chi ha votato “leave” quanto in chi preferiva il “remain”.
Ma mentre serviranno anni per capire nel profondo le conseguenze della Brexit, il Regno Unito oggi è più diviso di quanto lo fosse cinque anni fa.

Dal momento in cui il referendum sulla Brexit è stato annunciato, al 10 di Downing Street è diventato ovvio che il destino dell’Irlanda del Nord sarebbe stata la questione più difficile da negoziare. La provincia fa parte del Regno Unito, quindi ha lasciato la UE, ma condivide un confine terrestre con la Repubblica d’Irlanda, stato membro europeo. Mantenere quel confine aperto è estremamente importante, a causa del rischio molto reale di un’esplosione di violenza tra le comunità cattolica e protestante.

Per scongiurare problemi Johnson e la UE hanno concordato una via d’uscita definita “protocollo nordirlandese”, che garantisce all’Irlanda del Nord uno status speciale all’interno del territorio doganale della UE, eliminando la necessità di controlli sulle merci che attraversano il confine.
In cambio, il Regno Unito ha accettato un confine marittimo tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord, con grande costernazione sia degli unionisti nordirlandesi che dei repubblicani, che ancora sperano nella riunificazione del loro Paese.

Oltre un anno dopo che il Regno Unito ha ufficialmente lasciato l’Europa, Londra e Bruxelles continuano a battibeccare sulle realtà logistiche del protocollo che lo stesso Johnson ha accettato. Il Regno Unito dovrebbe implementare quanto previsto dall’accordo entro la fine di giugno, ma sta minacciando di estendere il periodo di transizione per evitare carenze di cibo - in particolare di carni refrigerate - in Irlanda del Nord. Se lo farà, la UE potrebbe rispondere imponendo tariffe al Regno Unito.

La stampa britannica ha etichettato questo spettacolo poco edificante come la “guerra delle salsicce”, ma è solo una battuta che nasconde una situazione potenzialmente destabilizzante in Irlanda del Nord.
Un portavoce del governo ha assicurato che il Regno Unito è “impegnato a trovare soluzioni consensuali con la UE, a patto che mostri buon senso adottando un approccio pragmatico”.
Ma il fronte irlandese non è l’unico grattacapo a rendere ancora più spettinata la capigliatura di BoJo: di fronte a lui si para il caso della Scozia, un altro incubo costituzionale.

Dopo anni di richieste, gli elettori scozzesi hanno respinto l’indipendenza nel referendum del 2014, quando gli unionisti britannici - guidati da Cameron – li hanno convinti che lasciare il Regno Unito avrebbe minacciato la loro permanenza nella UE. Ma dal voto sulla Brexit, lo “Scottish National Party”, che chiede la Scozia divisa dal Regno Unito, è cresciuto in popolarità e consensi. Le regole del gioco sono cambiate, ripetono gli indipendentisti, e abbiamo diritto di scegliere se giocare o meno: gli scozzesi hanno votato in modo schiacciante per rimanere nella UE, ma sono stati trascinati fuori contro la loro volontà. L’unica strada è decidere del loro futuro in prima persona, ottenendo l’indipendenza.

È improbabile che, almeno per ora, la spinta indipendentista abbia successo, ma la spaccatura si fa sempre più netta e prima o poi Johnson dovrà accettare di scendere fra i rovi e decidere con quali spine ferirsi.
A Bruxelles, i problemi sono altri: i diplomatici europei temono che la politica capricciosa del Regno Unito stia diventano la normalità delle relazioni future. E serpeggia anche il sospetto che qualcosa sia di volta in volta creato ad arte per distrarre il pubblico britannico dalla schiacciante realtà: un piccolo paese che negozia con il più grande blocco commerciale del mondo.

Liberi dal “giogo” di Bruxelles, per il Regno Unito si sono aperte nuove opportunità di business, ma al di là degli accordi commerciali con i paesi dall’altra parte del mondo - che secondo le previsioni dello stesso governo avranno un beneficio trascurabile – l’esecutivo di Johnson deve ancora articolare una politica economica che tenga conto delle conseguenze della Brexit.

Di fatto, cinque anni dopo, il Regno Unito è ancora segnato fortemente dal risultato di quel referendum. La maggior parte della gente l’ha accettato, ma pochi sono soddisfatti di come sia finita, e la verità sta forse a monte di tutto: indire un referendum senza alcun piano per quello che poteva accadere dopo, è stato un errore madornale.
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