3 giugno 2024

Dal buono pasto a quello che vale uno spuntino

È quanto si possono permettere 3,5 milioni di italiani che ogni giorno utilizzano i ticket. Il valore medio nazionale, fermo a 6,75 euro, non permette molto di più di un panino, qualcosa da bere e un caffè

Autore: Germano Longo
Secondo una ricerca “BVA Doxa” realizzata per “Pluxee Italia”, brand di servizi benefit, chi è costretto a mangiare fuori casa, anche limitando l’appetito a numero un panino, piadina o toast, un bicchiere di qualcosa che non sia acqua del rubinetto e un caffè, deve mettere in conto una spesa media pari a 8,10 euro. Se invece ci si siede al tavolo per un primo piatto, con bevanda ed espresso, il conto sale a 9,80. Chi opta invece per un secondo piatto raggiunge comodamente gli 11,60 euro, mentre il pasto completo difficilmente scende sotto i 15. Che per essere ancora più limpidi significa l’8% in più del periodo pre-pandemia.

Fra i motivi non rientra la lotta all’obesità o il tentativo di mantenere in forma fisica il popolo italiano, al contrario è colpa della solita inflazione, del consueto l’aumento dei prezzi, dello strascico infinito del Covid e delle dannatissime guerre che in qualche modo finiscono sempre per c’entrare qualcosa con i prezzi al dettaglio. In fondo tutto nella norma di tempi anomali, se non fosse che il buono pasto, per molti anni una sorta di ticket salva budget familiare, continua a restare ancorato alla media nazionale di 6,75 euro, anche se la cifra cambia di provincia in regione.

Mangiare fuori casa costa di più per chi vive al nord: dall’immancabile primo posto della Lombardia, dove il tris panino/bevanda/caffè sfiora i 9 euro, ai 7,80 in voga nel centro che diventano 7,40 al sud e nelle isole. Lo racconta ancora meglio una ricerca della “Anseb” (Associazione Italiana Esercenti Buoni Pasto), secondo cui ormai il buono pasto arriva a coprire meno della metà del costo (18% dei casi) e nel 48% raggiunge il 50% esatto, mentre sale all’80% di copertura solo per il 25% dei ticket in circolazione, per arrivare al misero 9% dei pochi fortunati che hanno in mano buoni che valgono un pranzo completo.

Eppure, secondo le norme, un piccolo spazio di manovra ci sarebbe: la norma consente alle aziende di alzare il valore fino a 8 euro, cifra fra l’alto interamente deducibile ed esentasse. Una proposta in discussione al Senato dove è approdata come DDL “Semplificazioni in materia di lavoro e legislazione sociale” presentato dalla senatrice Paola Mancini: una soluzione che permetterebbe di sostenere la filiera e aumentare l’importo da 8 a 10 euro senza ritoccare la base imponibile. Un impegno che la Ragioneria dello Stato ha valutato in 70 milioni di euro per il primo anno, cifra tuttavia destinata a scendere per l’aumento del gettito Iva.

“Se consideriamo che il mercato dei buoni pasto in Italia si attesta attorno ai 4 miliardi di euro di valore per quasi 4 milioni di consumatori – assicura Anna Maria Mazzini, chief growth officer di Pluxee Italia – c’è una grande possibilità di ampliamento per il settore poiché sono 19 i milioni di consumatori potenziali appare evidente che abbiamo un notevole gap da colmare anche in termini di informazione e diffusione. Questo riguarda soprattutto le PMI, le quali rappresentano circa l’80% del tessuto imprenditoriale di questo Paese”.

In effetti, dall’indagine di Altis-Università cattolica realizzata per “Anseb” emerge che lo scorso anno più di 3,5 milioni di laboratori italiani hanno ricevuto il buono pasto: di questi, il 20% rappresenta dipendenti pubblici, e per il 61% si tratta di uomini per il 75% over 35 e per il 53% con un lavoro nel nord del Paese. L’89% ammette di usare il buono per fare la spesa fra supermercati e negozi di alimentari, il 19% li spende invece fra bar, ristoranti, self-service e tavole calde.

A inceppare il meccanismo dei buoni pasto ci hanno pensato nel tempo meccanismi perversi che partono dalla vendita alle aziende dei ticket con sconto d’ufficio sulla cifra stampata che alla fine diventa una commissione compresa tra 5 e 20% che ricade a pioggia tanto sui 170mila fra bar e ristoranti convenzionati quanto sulla grande distribuzione, che da tempo accetta i ticket come forma di pagamento. Un balzello, condito da abbondanti ritardi nei rimborsi, definito “tassa occulta” che da sempre manda su tutte le furie la Fipe Confcommercio e su cui qualche correzione i governi precedente l’avevano tentata, ma con scarsi risultati.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
Iscriviti alla newsletter
Fiscal Focus Today

Rimani aggiornato!

Iscriviti gratuitamente alla nostra newsletter, e ricevi quotidianamente le notizie che la redazione ha preparato per te.

Per favore, inserisci un indirizzo email valido
Per proseguire è necessario accettare la privacy policy