Mobbing, bossing e straining.
Sono termini che, nei paesi anglosassoni, sono stati coniati nell’intento di definire tutte le sfumature che possono assumere le vessazioni nei luoghi di lavoro.
Il loro comune il denominatore è quello di sostanziarsi in comportamenti che determinano condizioni di “oppressione” psicologica, messi in atto da colleghi o da superiori nei confronti di altri dipendenti.
Si tratta di situazioni notoriamente diffuse, sicché quelle espressioni sono ormai entrate nel linguaggio comune e mutuate pressoché ovunque, anche nel nostro ordinamento, dove, tuttavia, mancando una disciplina normativa specificamente dedicata, è affidato alla giurisprudenza il compito sia di darne una definizione che di ricondurle ad un inquadramento giuridico che renda possibile una qualche forma di tutela.
E così, nello specifico: il mobbing identifica un insieme di atti o comportamenti vessatori, sistematici e protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei membri dell’ufficio o dell’unità produttiva in cui è inserito o da parte del suo datore di lavoro, con intento persecutorio al fine di emarginarlo ed escluderlo; il bossing individua le situazioni in cui il capo o il superiore esercita abuso di potere sul proprio subordinato, scoraggiandone autonomia e capacità decisionale; lo straining, infine, individua una condotta vessatoria consistente in un’azione di molestia unica ed isolata tendente a provocare nella vittima una situazione di stress forzato e di disagio permanente che la riducono ad una condizione di inferiorità per cui tende ad autoisolarsi sentendosi inadeguata.
È evidente che all’intento di dare una ben precisa nomenclatura a tali situazioni corrisponde la necessità di individuare e perseguire giuridicamente quelle moderne forme di sopruso o abuso che, nelle società più evolute, hanno preso il posto di quelle che un tempo erano le violenze fisiche e le varie forme di schiavitù.
Eppure è illusorio credere che queste ultime siano definitivamente tramontate; ed anzi, per una grottesca contraddizione, di recente proprio l’informazione anglosassone ha denunciato episodi di abuso e sopraffazione fisici che segnano un penoso passo involutivo di civiltà.
La vicenda è quella portata alla ribalta della cronache da un reportage della BBC realizzato tra le lavoratrici delle coltivazioni di tè gestite in Kenya da grandi marchi britannici. Ha rivelato un sistema ormai strutturato di stupri, abusi e violenze sessuali commessi da manager e supervisori locali su più di 70 donne tra quelle che vi sono impegnate.
Le piantagioni su cui è stata condotta l’indagine sono di proprietà di due famosi marchi del Regno Unito: Unilever, che fino a qualche tempo fa realizzava prodotti a marchio Lipton e PGtips; e James Finaly & C, che tuttora rifornisce le catene di supermercati Tesco e Sainsbury’s oltre che Starbucks UK.
Dopo un primo giro di interviste su cento lavoratrici - di cui 70, appunto, hanno dichiarato gli abusi subiti, sotto il ricatto di non essere pagate o di perdere addirittura il lavoro – la BBC ha pensato di raccogliere ulteriori prove inviando nelle piantagioni una giornalista sotto copertura. E la “procedura” è stata confermata.
Pare, addirittura, che in occasione, poi, di una giornata di orientamento, lo stesso manager che aveva appena tenuto un discorso ai nuovi assunti sbandierando la rigida politica di salvaguardia adottata dall’azienda da lui rappresentata proprio nei confronti degli abusi sessuali, ha subito dopo “insidiato” la reporter invitandola al bar e proponendole rapporti sessuali. Al suo diniego è seguita l’assegnazione ad una mansione estenuante, da cui la giornalista ha chiesto di poter essere trasferita. E ancora una volta ha ottenuto in risposta la stessa profferta in cambio dell’ottenimento di mansioni più leggere.
Quel che è singolare è che già una decina di anni fa analoghi accuse erano state mosse ai manager delle medesime società, in conseguenza di che esse avevano annunciato l’adozione di un sistema di segnalazione ed intervento improntato ad un criterio di “tolleranza zero”. E invece, sempre secondo l’inchiesta giornalistica, pare che le denunce di molestie sessuali esposte dalle lavoratrici nemmeno venissero prese in considerazione.
Come se non bastasse, sempre le stesse aziende erano anni prima finite in Tribunale a Londra a seguito delle accuse di alcuni lavoratori e lavoratrici sopravvissuti ad un’ondata di stupri, violenze ed assassini compiuti da loro stessi compagni - istigati dai consueti manager - durante una settimana di contestazioni seguite all’esito delle elezioni presidenziali keniote del 2007.
Poiché l'azienda non era riuscita a proteggerli, nonostante i chiari segnali di avvertimento di una violenza imminente, le vittime o i loro familiari, anni dopo, avevano agito per ottenere un risarcimento. L’esito del giudizio – protrattosi fino al 2018 - era stato però negativo e, dunque, come estremo tentativo, i ricorrenti nel 2021 avevano presentato una denuncia all’ONU, sostenendo che l'azienda avesse violato i principi guida delle Nazioni Unite per le imprese e i diritti umani, giacché uno dei requisiti è che le aziende devono garantire che le vittime di abusi dei diritti umani nella loro catena di approvvigionamento abbiano accesso al compensazioni. Confidavano che i sostenitori internazionali dei diritti umani supportassero la loro causa, ma pare non esserci stato alcun seguito.
La lotta strenua e perlopiù inappagata contro certi colossi imprenditoriali sembra quella del misero pastore Davide che con una semplice fionda sfida il gigante Golia.
Peccato che, evidentemente, l’esito non sia lo stesso, giacché, come sempre, a mancare ai miseri e ai derelitti non è la protezione divina che tanto giovò al giovane pastore, quanto, prima ancora, quella umana. Dei simili verso i propri simili.
E poco importa che si tratti di razzismo o di retaggio colonialista, la conseguenza è indipendente dalla natura della causa.
Certo è che, con tali consapevolezze, la tradizione britannica dei tè delle 17 dovrebbe forse avere un gusto più amaro.