23 luglio 2022

Dei profili e delle profilazioni

Autore: Ester Annetta
“È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale.

Nell'ambito d'applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità.”

È quanto prevede l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, se non bastasse, con più specifica attinenza alla nostra nazione, abbiamo anche l’art. 3 della Costituzione - nata abbondantemente prima della Carta – che proclama lo stesso principio di uguaglianza.
Questa è la premessa che si rende necessaria in relazione alla discussione attorno questione del c.d. “racial o ethnic profiling” - la “profilazione etnica” - tornata d’attualità nei giorni scorsi.

Arricchendo la definizione generale di “profilazione” (intesa come il tracciamento del profilo di qualcuno mediante l’identificazione e la raccolta dei dati personali e delle abitudini caratteristiche) con l’aggiunta dell’attributo “etnica”, il risultato che si ottiene è la definizione data a «ogni azione di polizia che si basi sulla razza, l'etnia o l'origine nazionale di un individuo piuttosto che sul suo comportamento oppure su informazioni che portino a identificarlo come coinvolto in attività criminali».

L’espressione viene dunque a connotare una condotta di chiara evidenza razzista, non solo improntata a generico pregiudizio.

Non è una questione di poco conto e, tuttavia, torna a parlarsene solo in coincidenza di episodi estremi (vedasi il caso di George Floyd) o che abbiano per protagonisti personaggi “d’alto profilo”, circondati da una qualche notorietà.

È proprio a quest’ultimo proposito che si è riproposto l’argomento, dacchè il “profilo” coinvolto è stato quello di un noto calciatore.

È di recente circolato un video girato da un passante che riprende l’azione di una pattuglia di polizia che ferma Tiémoué Bakayoko, centrocampista del Milan. Di colore.

Un poliziotto lo tiene fermo contro la volante mentre lo perquisisce e il suo collega tiene sotto tiro con una pistola l’altro uomo (pure di colore) rimasto seduto sul sedile del passeggero nell’auto del calciatore. I due evidentemente non sanno – o non hanno riconosciuto - chi sia il fermato (onestamente nemmeno io, vista la mia scarsissima cultura calcistica) ma il loro atteggiamento cambia repentinamente con tanto di scuse e pacca sulla spalla quando lo capiscono.

Si badi bene: le scuse non dipendono dal fatto che i due poliziotti hanno compreso d’aver preso un granchio, ma dall’aver riconosciuto il fermato! Ergo, se al suo posto ci fosse stato un qualunque altro uomo di colore, il sospetto non sarebbe caduto altrettanto agevolmente né ci sarebbe stata alcuna pacca sulla spalla. Ancor meno ci sarebbe stato tanto clamore, evidentemente.

È quanto hanno prontamente sottolineato gli assidui commentatori social, in primis, ma anche organi di stampa ed associazioni - Amnesty International su tutte - gridando subito allo scandalo e chiamando in causa l’esecrabile pratica della “profilazione razziale”.

La Questura di Milano, dal canto suo, avrebbe giustificato l’accaduto rivelando che il controllo sarebbe scattato a seguito della segnalazione di una rissa avvenuta nella zona pattugliata, dove sarebbero state coinvolte due persone “straniere” e segnalato un suv scuro con a bordo due uomini, di cui uno con indosso una maglia verde: lo stesso capo che, combinazione, indossava il calciatore, che pure possiede un suv scuro. Dunque gli agenti sarebbero intervenuti sulla base di questa segnalazione, seguendo un preciso regolamento.

Vere o meno che siano le scusanti, la “profilazione etnica” è comunque da tempo al centro di numerosi dibattiti nazionali e internazionali, tanto che il legislatore, nell’uno e nell’altro contesto, ha sentito la necessità di dover suggerire delle linee di condotta: il Codice europeo dell’etica della Polizia raccomanda, infatti, che quest’ultima “svolga le sue funzioni in maniera equa, ispirata in particolare dai principi di imparzialità e non discriminazione” e lo stesso ribadiscono le Raccomandazioni n. 7, 8 e 11 dell’ECRI, la Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza.

In Italia, l’art. 43 del T.U. immigrazione D.lgs. vo n. 286/98 impone un divieto generale di non-discriminazione, anche ai pubblici ufficiali, inclusi dunque gli agenti di polizia, precisando (comma 2) che: “In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnica o nazionalità, lo discriminino ingiustamente (..)”.

È peraltro intuibile che sovente la questione della illiceità di una pratica come la profilazione etnica possa confliggere con la necessità di interventi di contrasto all’immigrazione irregolare e pretendere quindi di essere legittimata in ragione di essi. Tuttavia anche a tal proposito il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite con un documento del 2009 ha precisato che costituisce un atto illegittimo qualsiasi iniziativa di lotta all’immigrazione irregolare fondata su controlli identificativi di persone sistematicamente e principalmente condotti sulla base di profili razziali, soprattutto quando vengano disposti attraverso ordini superiori, direttive, ordinanze o altri atti formali o interni. Ciò anche al fine di evitare che si diffondano atteggiamenti xenofobi.

Sul tema numerose sono pure state – a livello europeo – le pronunce giurisprudenziali.

E ciò che continua ad emergere dai dibattiti a riguardo è la necessità di una maggior cautela che dovrebbe partire, anzitutto, da uno studio delle statistiche di ricorrenza del fenomeno al fine di aumentare la trasparenza e la responsabilità delle autorità di contrasto; in secondo luogo, gli Stati dovrebbero elaborare degli “standard di ragionevole sospetto” ai quali applicare il fermo e la perquisizione e sui quali predisporre una formazione continua della polizia, che dovrebbe peraltro includere il dettato che siano spiegati alla persona controllata i motivi per cui viene fermata, onde impedire che essa abbia la percezione di una profilazione basata sui pregiudizio.

Basterà?

Nel dubbio, devo ricordarmi di dire a mio figlio che forse è a causa di quella sua barba modello talebano e dei troppi tatuaggi da galeotto (come dice sua nonna) - che l’outfit estivo lascia ben in vista - se son già due sere in una settimana che la polizia lo ferma e gli punta la torcia in faccia mentre fruga con una mano dietro il sedile per cercare il libretto di circolazione!
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