Nella leggenda della Nazionale italiana, una pagina resterà indelebile: la magra figura rimediata negli Europei 2024 ospitati in Germania. Dove sta la colpa e quale il nome da crocifiggere fa tutto parte del processo sommario postumo tipico dell’Italia calcistica, anche se tutti concordano su un punto: la scomparsa dei vivai non permette più di scoprire e allevare i futuri Baggio, Vialli, Del Piero.
Ma non è tutto qui, e al netto delle colpe di Spalletti e di una squadra scombiccherata che forse poteva andar bene per una “scapoli-ammogliati” fra amici, ci sono altri fattori che hanno reso la Nazionale italiana impalpabile e inguardabile.
Secondo un’inchiesta di “InvestireOggi”, a monte del disastro sportivo ci sarebbero gli effetti nefasti degli incentivi fiscali introdotti nel 2019 con il “Decreto Crescita”, creato con il nobile intento di attirare i cosiddetti “cervelli in fuga” attraverso regimi fiscali assai vantaggiosi. In linea del tutto teorica, dimezzare l’imposta sui redditi intascati in Italia a chi nei due anni precedenti risultava residente all’estero, avrebbe dovuto avere un effetto calamita per i talenti italiani trasferiti in altri Paesi e dare maggior appeal alla Seria A, massimo Campionato di calcio italiano.
E se un discorso a parte lo meriterebbe il concetto di talenti italiani del pallone all’estero, onestamente difficili da individuare, dall’altra tutto si è tradotto in una realtà ben diversa: nel campionato di Serie A, il 67% di chi gioca è rappresentato da stranieri, attirati da queste parti più che per dare lustro all’ex “campionato più bello del mondo” da ingaggi tassati molto meno che da altre parti.
In pratica, il capitolo del Decreto Crescita dedicato ai cervelli in fuga ha servito su un piatto d’argento alle società l’opportunità di attirare stranieri con stipendi netti decisamente più alti rispetto al passato. Calcolando un ingaggio pari a 10 milioni di euro lordi all’anno, se prima il netto si aggirava sui 5,5 milioni, oggi supera i 7,5. Non male, per prendere a calci un pallone.
Da qui, il resto: invece di investire nei vivai e coltivare calciatori, sperando forse di incappare prima o poi in un talento vero, è molto più facile e meno dispendioso fare la spesa all’estero pescando tutto quel che serve fra professionisti già formati e abituati a palcoscenici internazionali.
Resta sul fondo, come nelle bottiglie di vino d’annata, la polvere sottile di un’ingiustizia che assolve dalla piaga dell’alto livello di tassazione quel mondo affollato dagli dei dell’arte pallonara, unici ad avere diritto a trattamenti di riguardo a fronte di stipendi inimmaginabili per un umano qualsiasi. Ed è altrettanto chiaro il motivo per cui le società hanno respinto al mittente ogni tentativo del governo Meloni di cancellare il privilegio.
La lunga storia dei calciatori stranieri in Italia inizia idealmente nel 1966, quando la Federazione fa la scelta autarchica di chiudere le frontiere per rimpolpare i vivai alla ricerca del nuovo Valentino Mazzola. Gli scarsi risultati, a parte lo scandalo del “Totonero”, convincono i vertici del calcio italiano ad una sonora retromarcia: nella stagione 1980-81 ogni club può tesserare non più di un calciatore straniero. Arrivano Van De Korput al Torino, Brady alla Juventus, Falcao alla Roma, Prohaska all’Inter. Un anno dopo, gli stranieri in rosa possono essere tre, e inizia la corsa al nome che vale: Platini, Zico, Maradona, Careca e il trittico olandese del Milan.
Ma nel 1996, sul calcio europeo si abbatte con forza il caso di Jean Marc Bosmam, calciatore delle serie minori che ricorre al tribunale del lavoro europeo per difendere il proprio diritto di giocare nel campionato francese anche se cittadino belga.
Da allora, con una progressione inarrestabile, le presenze straniere nelle rose delle società italiane si sono moltiplicate, fino a toccare paradossi che oggi sono ormai pura normalità: squadre che scendono in campo con 10 undicesimi rappresentati da stranieri.
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