Non è bastata una Legge di Bilancio approvata ad occhi chiusi. Ora sia l’UE che la Ragioneria dello Stato vogliono negare agli italiani di sapere come sono state spese le loro tasse e se i sacrifici che hanno dovuto affrontare dopo dieci anni di tagli alla spesa pubblica siano serviti a qualcosa.
Il lettore infatti deve sapere che lo scorso agosto, il Centro Studi Fiscal Focus ha chiesto alla Commissione Europea di ottenere il documento contenente le risposte ufficiali fornite dalle istituzioni italiane in occasione della European Commission Survey on Spending Reviews del 2019.
E’ ben noto che dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008/2009, ma in modo particolare dalla crisi dei titoli di Stato in poi, l’Unione Europea abbia lanciato una campagna sollecitando i Paesi membri ad adottare nuovo approccio di policy-making chiamato spending review, ovvero revisione della spesa pubblica.
In poche parole, il legislatore avrebbe dovuto rivedere le politiche pubbliche realizzate sino a quel momento per valutare delle opzioni di risparmio da reinvestire eventualmente altrove.
In sostanza, il legislatore avrebbe dovuto chiedersi se una determinata politica pubblica e la relativa spesa erano ancora da considerarsi in quel momento una priorità, erano da ritenere efficienti nel raggiungimento degli obiettivi della policy, ed erano soprattutto cost-effective, ovvero in grado di raggiungere gli stessi obiettivi utilizzando il minore ammontare di risorse.
Sostanzialmente si trasferivano allo Stato le stesse prerogative di valutazione di una impresa privata partendo dall’assunto che non conta quante risorse vengono destinate per il raggiungimento di un determinato obiettivo, ma quanto efficienti quelle risorse si rivelano per realizzarlo.
Ci ricordiamo ancora degli anni in cui l’espressione spending-review era diventata un mantra.
Erano gli anni in cui la vera priorità del Paese era da considerarsi quella di ridurre lo spread con la Germania ed il sempre crescente debito pubblico, che è invece sempre continuato ad aumentare.
Ovviamente, vivendo in uno dei Paesi con la maggiore pressione fiscale in Europa, tutti noi siamo preoccupati di sapere quanto efficientemente vengano spesi i soldi delle nostre tasse.
Per esempio, lo scorso anno la CGIA di Mestre pubblicava un rapporto in cui emergeva che l’evasione fiscale vale la metà delle inefficienze che lo Stato scarica su cittadini ed imprese.
Tanto da suggerire che “sebbene entrambi non siano comparabili da un punto di vista strettamente statistico, possiamo comunque affermare con buona approssimazione che l’evasione fiscale e contributiva presente nel nostro Paese – pari, secondo i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze, a circa 110 miliardi di euro all’anno – ammonta a poco più della metà degli sprechi, degli sperperi e delle inefficienze causate dal cattiva gestione della nostra Pubblica Amministrazione (PA) che, la CGIA, stima in oltre 200 miliardi di euro all’anno”.
In questo caso, siamo proprio noi cittadini a chiedere che venga effettuata una spending review della Pubblica Amministrazione orientata ad un maggiore efficienza nell’utilizzo della spesa pubblica e che quei soldini risparmiati in maniera intelligente possano venire reinvestiti in ulteriori servizi al cittadino.
Nel 2013, invece, dopo due anni di spending review e riordino dei conti pubblici sotto l’egida di Mario Monti, il Governo Letta si impegnava a varare una Legge di Bilancio atta a recuperare 32 miliardi (all’epoca il 2% del PIL) da immagazzinare entro il 2016 per tagliare le tasse agli italiani. Tasse che, al contrario, non furono mai tagliate.
Proprio partendo da questi presupposti è lecito chiedersi se l’impatto delle politiche di revisione, risparmio e di efficientamento della spesa pubblica abbiano raggiunto gli obiettivi prefissati.
Per saperlo, bisognerebbe mettere le mani sulle carte che l’UE ci ha negato (e che la Ragioneria dello Stato sta evitando di fornirci da ben quattro mesi) perché “avrebbe un impatto sull’apprezzamento interno delle decisioni di spesa del governo e darebbe adito ad una visione distorta di come i soldi pubblici sono stati gestiti”.
Infatti, la stessa Commissione Europea prevede che anche le politiche di revisione della spesa pubblica debbano essere riviste e soprattutto valutate, attraverso una procedura chiamata appunto post-evaluation (o, valutazione postuma).
Ma è qui che casca l’asino.
Perché sebbene non ci è stato ancora consentito di sapere se l’Italia abbia fatto o meno “i compiti a casa”, ci siamo adoperati per trovare un documento che riassume a livello europeo le risposte di tutti i Paesi che hanno aderito alla survey del 2019 sulle maggiori sfide delle politiche di spending review.
Tale documento, datato dicembre 2020, si chiama Spending Reviews: Some Insights from Pratictioners ed al suo interno spiega come più del 50% dei Paesi europei che hanno adottato politiche di spending review non abbiano mai effettuato una post-valutazione delle stesse e che un altro 20% non era sicuro di averlo fatto o meno.
In soldoni, in Europa il 70% dei Paesi che si è affidato al modello di valutazione delle politiche pubbliche partendo da una revisione della spesa al fine di renderla più efficiente, non sa se le politiche di spending review abbiano avuto un impatto positivo o negativo sui cittadini e se quindi debbano essere ulteriormente migliorate.
Allo stesso tempo, le maggiori sfide per potare a termine delle politiche di revisione della spesa sono state la mancanza di dati, di tempo, di staff ma anche di persone dotate delle competenze necessarie per effettuare l’analisi di quei pochi dati che invece erano a disposizione del legislatore.
Insomma, abbiamo la sensazione che sia l’UE che la Ragioneria dello Stato vogliano impedirci di apprendere quella che a noi pare essere diventata una verità lapalissiana: si è navigato e si continua a navigare a vista, ma l’importante era tagliare.
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