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Est modus in rebus

Autore: Ester Annetta
Se vado a ritroso nel tempo alla ricerca - tra le mie conoscenze – d’un esempio di portata generale che avvalori l’importanza di dare una misura ai concetti e alla parole, la mia memoria si ferma al periodo universitario, quando studiai la c.d. “presunzione di non colpevolezza”, principio di valenza fondamentale, affermato dalla nostra Carta Costituzionale (art. 27 comma 2, secondo cui «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva») e posto alla base del diritto e della procedura penale.

Tale principio – tra l’altro meglio precisato nell’art. 6, comma 2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che afferma: «ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata») – comporta che, fino alla sua condanna definitiva, il presunto autore d’un delitto non può qualificarsi come “colpevole” ma unicamente come “imputato”. Spetta alla pubblica accusa l’onere di provarne la sua reità, mentre all’imputato non spetta di dimostrare la propria innocenza, che deve essere, appunto, presunta.

Dall’evidente portata sostanziale del detto principio (la cui diretta e principale conseguenza è il divieto di anticipare la pena, essendo pertanto consentita solo l’applicazione delle misure cautelari) pare mutuare importanza anche l’aspetto lessicale, posto nella distinzione tra i due termini “colpevole” e “imputato”, tanto da poter ardire d’affermare che essa rappresenti, a sua volta, un esempio riconducibile ad un precetto d’altra natura oggi tanto in voga: il “politicamente corretto”.

Tuttavia è un altro il termine cui più notoriamente può farsi risalire l’inizio della crociata intrapresa in virtù d’una (a volte pretenziosa) “maturazione della coscienza sociale” che ha messo al bando alcuni termini ritenuti invisi, offensivi, discriminatori: “Negro”, termine nato in epoca schiavista e di conseguenza associato storicamente alla discriminazione razziale, è stato quello che per primo ha subito un giudizio valutativo, iniziato a partire dal XX secolo, quando, proprio in alcuni ambienti americani (associazioni anti razziste in particolare) cominciarono a coniarsi denominazioni alternative, eufemismi, ritenuti meno offensivi quali, per esempio, “di colore”.

“Politicamente corretto” (politically correct) è l’espressione che indica una ideologia le cui origini si fanno risalire ad un movimento d'ispirazione liberale e radicale nato nelle università americane alla fine degli anni ottanta (sebbene pare che l’espressione fosse già apparsa una prima volta nella terminologia marxista-leninista), con l’intento di promuovere il riconoscimento del multiculturalismo e la riduzione di alcune espressioni linguistiche discriminatorie ed offensive utilizzate nei confronti delle minoranze.

Un nobile intento – almeno nelle intenzioni iniziali – cui si sono poi ispirati ed hanno attinto anche altre culture, apportando conseguentemente modifiche al proprio linguaggio in nome di una inclusività che, nella sua funzione meramente formale, avrebbe dovuto associarsi anche ad un’azione sostanziale.

In Italia si è così assistito alla “traduzione” di alcuni termini, quali ad es.: “diversamente abile” in luogo di “handicappato”; “rom o sinti” invece che “zingaro”; “operatore ecologico” e “operatore scolastico” invece, rispettivamente, di “spazzino” o “bidello” e così via, fino ad arrivare all’era Covid, che ha visto ribattezzare la varianti del virus con le lettere dell’alfabeto greco per non offendere altrettante nazionalità.

Col tempo, però, quel paradigma ha finito per diventare eccessivamente condizionante, trasformandosi in una modalità talmente abusata da divenire – a tratti – un’autentica censura.
Scriveva Orazio nelle sue Satire: “Est modus in rebus sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum”, ossia “v’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto”.

“Il troppo stroppia” diremmo meno aulicamente oggi, ad indicare la negatività di ogni eccesso.
Perché è di questo che si tratta.

L’ossessiva difesa di ciò che è ritenuto politicamente corretto ha prodotto una vera e propria slavina che ha finito per travolgere ogni ambito socio-culturale ed ogni contesto linguistico, arrivando perfino al paradosso - in nome di un puritanesimo a tratti davvero spropositato - di inaugurare una novella forma di censura, appunto, che (col ricorso alla consueta anglofilia) è stata definita "cancel culture", ossia la “cacciata” dai social o dalle piattaforme web degli interventi (e delle persone) che siano giudicati contrari ai parametri della correttezza politica.

L’ultimo, lampante, esempio è la delirante accusa di razzismo lanciata qualche giorno fa sul Guardian da Raj Patel - economista, accademico e giornalista inglese - nientemeno che contro la torta di mele. In un pezzo intitolato “L’ingiustizia alimentare ha radici profonde: cominciamo con la torta di mele americana” ha scritto che “Le mele hanno viaggiato nell’emisfero occidentale con i coloni nel 1500 in quello che veniva definito lo scambio colombiano, ma ora è meglio compreso come un vasto genocidio di popolazioni indigene” e che lo zucchero è “un prodotto indissolubilmente legato al commercio di schiavi francesi”.

Che quella di Patel sia stata o meno una provocazione, ciò che è ormai evidente è come persino le questioni linguistiche, se abilmente riadattate ed orientate, possano trasformarsi in strumenti politici a supporto di questa o quella ideologia.

Parimenti pericoloso – oltre che surreale – è che persino le nostre tradizioni possano essere sottoposte al vaglio d’una logica paradossale, secondo cui – estremizzando - dovremmo finire per vergognarci pure delle nostre annate di “Negramaro” o d’aver sempre indicato con “testa di moro” il colore di un capo in pelle.

È urgente, allora, recuperare la misura, evitare le esasperazioni e le strumentalizzazioni, conservando anche il giusto rispetto per le nostre varietà linguistiche ed espressive, come mirabilmente ha fatto, qualche mese fa, l’Enciclopedia Treccani che, a chi chiedeva di rimuovere dal suo vocabolario l’espressione “lavorare come un negro”, ha così risposto: “In un dizionario della lingua italiana non è soltanto normale ma è doveroso che sia registrato il lessico della lingua italiana nelle sue varietà e nei suoi ambiti d'uso: dall'alto al basso, dal formale all'informale, dal letterario al parlato, dal sostenuto al familiare e anche al volgare. Il dizionario registra quanto viene effettivamente adoperato da parlanti e scriventi. Non siamo in uno Stato etico in cui una neolingua "ripulita" rispecchi il "dover essere" virtuoso di tutti i sudditi. Il dizionario ha il compito di registrare e dare indicazioni utili per capire chiaramente in quali contesti la parola o l'espressione viene usata. Starà al parlante decidere se usare o non usare una certa parola; se esprimersi in modo civile o incivile".

Con buona pace dei buonisti, veri e falsi.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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