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Giovani di poche parole

Autore: Ester Annetta
L’ultimo giorno di scuola è, notoriamente, quello in cui c’è tutta la classe: nessuno è assente, neppure gli alunni che sanno già che dovranno ripetere l’anno.
I giochi ormai sono stati fatti, non residua tempo per interrogazioni dell’ultimo secondo né per trattare con gli insegnanti argomenti delle rispettive discipline.
Nessuno ha portato i libri; nello zaino ci sono solo merendine, panini, bottigliette e mazzi di carte. Perlopiù è un giorno di saluti, di chiacchiere e risate, di giochi.

Gli allievi di quinta fanno persino le prove generali della loro divisa da esame, con indosso la camicia ed i pantaloni che sfoggeranno quel giorno, godendosi, compiaciuti, gli sguardi ed i complimenti dovuti alla loro mise, concedendosi l’anticipo d’una sensazione che, probabilmente, il giorno della prova sarà impedita dalla tensione.
A gruppi se ne vanno, poi, in giro per le altre aule, per porgere i loro saluti agli insegnanti, anche quelli avuti negli anni passati e mai più ritrovati: un gesto di commiato che vuol essere però anche un goffo ed impacciato modo per dire grazie per il contributo che hanno apportato al percorso della loro crescita.
Per la prima volta, dopo mesi, vedo per intero i loro bei volti acerbi e i loro sorrisi, liberati (forse un po’ incautamente) dalla mascherina…”che tanto siamo vaccinati!”

L’orario non ha avuto sconti né riduzioni neppure oggi, e bisogna dunque rimanere in classe fino al suono dell’ultima campanella. Perciò, esauriti i saluti, i complimenti ed il bivacco, si passa ai giochi.

Quello cui assisto (e che non so se sia un format noto o una invenzione dei miei ragazzi) è una sorta di sfida che vede contrapporsi due originali duellanti, il cui scopo è quello di insultarsi vicendevolmente, seduti l’uno di fronte all’altro, in un tempo massimo prestabilito, sotto l’occhio vigile di un direttore di gara - col compito di sorvegliare che le regole del gioco siano osservate - e di una giuria che deciderà chi degli sfidanti si sarà aggiudicato la vittoria proferendo gli insulti più efficaci.

Le regole sono solo due: non bisogna utilizzare parolacce; la “singolar tenzone” dovrà svolgersi utilizzando un linguaggio quanto più raffinato e aulico possibile.

“Aulico”: dice proprio così il direttore di gara, affrettandosi poi a spiegare il significato dell’aggettivo nel dubbio che per gli altri non sia facilmente intuibile.

Osservo quel curioso duello rendendomi ben presto conto della fatica che costa ad ogni ragazzo non solo cercare lemmi idonei a fungere da garbati insulti ma anche costruire frasi efficaci utilizzando espressioni non comuni. Tra l’altro sono degli informatici – come si appellano comunemente tra loro – studiosi di discipline tecniche e scientifiche e perciò meno attenti a quelle umanistiche e al garbo linguistico, nonostante abbiano avuto validissimi insegnanti.

Arrancano, dunque, rendendosi conto di aver scelto un gioco che implica conoscenze lessicali e grammaticali ben maggiori di quelle che hanno disponibili. Soprattutto sono visibili gli inciampi di pronuncia, la fatica della ricerca di termini inconsueti, la costruzione di frasi articolate, gli errori d’accento, i fraintendimenti di parole usate al posto di altre…tutti elementi che denotano una preoccupante povertà verbale ed espressiva.

Mi torna allora in mente una definizione coniata una decina d’anni fa, apparsa in un titolo della Repubblica che, nel riprendere un articolo del «Sunday Times» in cui veniva analizzato il linguaggio usato dai ragazzi sul web, evidenziando quanto fosse limitato il vocabolario da essi impiegato per comunicare attraverso sms e twitter, li aveva definiti la “generazione venti parole”. La ricerca riportata dal Times (condotta da un linguista dell’Università di Lancaster) aveva rilevato, infatti, che i teenager quando parlano con i coetanei tramite Internet o il telefonino usano solo 800 vocaboli dei 40.000 che conoscono e le 20 parole più frequenti costituiscono circa un terzo di tutte le parole utilizzate per le loro comunicazioni.

Si tratta, purtroppo, di una condizione tuttora persistente, tanto che oggi si utilizza diffusamente l’espressione più tecnica di “analfabetismo funzionale”, per indicare l’allarmante e sempre più consistente evidenza di una adolescenza digiuna di adeguate competenze linguistiche: troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano ad esprimersi oralmente.

Già nel 1984 l’UNESCO aveva utilizzato questa espressione per definire “la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità". Analfabeta funzionale è quindi chi, pur sapendo leggere, scrivere ed esprimersi in modo sostanzialmente corretto, non è però in grado di raggiungere un adeguato livello di comprensione e analisi di un discorso complesso, il che, più concretamente, si traduce nell’”incapacità di comprendere, valutare e usare le informazioni che riguardano l’attuale società”.

Per usare un’immagine più “romantica” che, tuttavia, non vale a rendere più accettabile il fenomeno, potrebbe dirsi che i nostri giovani hanno “perso le parole”: dispongono di un repertorio lessicale minimo, che dimentica o letteralmente perde le parole seminate dall’italiano scolastico, lasciando superstite unicamente un gergo spoglio e involuto, che l’Accademia della Crusca annovera annualmente nell’elenco delle parole nuove (pur avvertendo che “se la redazione dedica una scheda di approfondimento a una parola non significa che ne sta promuovendo l’uso. Le schede sono pensate come strumenti di comprensione e approfondimento di una lingua, la nostra, che è in continua evoluzione. Le parole che fanno parte dell’italiano, come di qualsiasi lingua naturale, non possono essere “decise” o “scelte” dall’alto, ma sono quelle che spontaneamente si attestano negli usi dei parlanti, sulla base delle normali dinamiche di funzionamento delle lingue”) per evitare il paradosso d’una Babele in cui siano gli adulti delle passate generazioni a non comprendere il linguaggio delle nuove.

Secondo i dati rilevati dall’Ocse il livello di analfabetismo funzionale in Italia è tra i più alti in Europa: una larghissima fetta degli italiani legge, guarda, ascolta, ma pare non capire né sa ricostruire ciò che ha ascoltato, letto o visto in tv o sul computer. E’ in grado di comprendere solo segni netti ma semplici, mentre non è capace di avventurarsi nella complessità del testo o di coglierne l’organizzazione logica delle parole.
La causa principale di una tale deriva pare possa ricondursi a un duplice fattore: da un lato la crescita esponenziale della “comunicazione tecnologica”, quella affidata, cioè, agli strumenti di messaggistica e social, che limita l’apprendimento di nuove parole, poiché - come dimostrato da alcune ricerche condotte anche in ambito neurologico - il nostro cervello impara più facilmente nuovi termini quando li ascolta nell’ambito di conversazioni con altre persone; viceversa, l’utilizzo sempre più diffuso di dispositivi digitali finisce per sopraffare la comunicazione orale e per privilegiare gli stimoli visivi rispetto a quelli uditivi, riducendo conseguentemente il numero di vocaboli padroneggiati.

Dall’altro, c’è forse il mancato svecchiamento della didattica, che, anziché adeguarsi alle necessità di impiego di un linguaggio evoluto, dinamico, più aderente ai bisogni dei tempi moderni, tende a rimanere fossilizzata nelle sue stantie teche, dove continua a privilegiarsi unicamente l’analisi (anche quella grammaticale e sintattica) d’una lingua lontana dal suo impiego pratico, staccata dalla quotidianità, finendosi inevitabilmente per favorire quell’esecrabile crescita parallela d’un linguaggio più spicciolo e infimo.

E’ allora intuibile quali siano i rischi riconducibili al potenziale allargamento dell’analfabetismo funzionale: la riduzione dei confini entro cui si muove la percezione del contesto sociale, la disinformazione, l’inadeguata consapevolezza delle dinamiche che condizionano la realtà nella sua interezza dal momento che ogni situazione viene appresa e valutata secondo il parametro della propria esperienza diretta e sull’impatto che ha sul tenore delle proprie abitudini, piuttosto che nella sua portata generale.

Da qui l’incapacità di svolgere una analisi oggettiva, che consideri gli effetti delle situazioni – la crisi economica, la disoccupazione, ecc. – sulla collettività, inquadrandole in uno spazio ed in un tempo più ampi rispetto al proprio, ristretto, ambito personale; e, in finale, la drammatica conseguenza della mancata maturazione di una coscienza di “cittadino”, perché tale non è solo chi ha diritto di voto ma chi è consapevole del proprio essere sociale.

Il giurista Gustavo Zagrebelsky, nella lezione tenuta alla Biennale Democrazia di Torino nel 2009, disse: “Ogni forma di governo usa gli "argomenti" adeguati ai propri fini. Il dispotismo, ad esempio, usa la paura e il bastone per far valere il comando dell' autocrate. La democrazia è il regime della circolazione delle opinioni e delle convinzioni, nel rispetto reciproco. Lo strumento di questa circolazione sono le parole. Si comprende come, in nessun altro sistema di reggimento delle società, le parole siano tanto importanti quanto lo sono in democrazia. Si comprende quindi che la parola, per ogni spirito democratico, richieda una cura particolare: cura particolare in un duplice senso, quantitativo e qualitativo. Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell' uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica.”

Su questo allora, più ancora che sull’incapacità dei maturandi di trovare termini “aulici” per insultarsi, varrebbe meglio la pena di meditare e, soprattutto, di intervenire.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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