Il ritratto del mondo giovanile che ci viene restituito oggi, a distanza di due anni dall’inizio della pandemia, è perlopiù quello – dipinto a tinte fosche - di una generazione di sfiduciati, soli, disadattati, per i quali la fuga dalla noia e dall’isolamento imposti dalle restrizioni reiteratamente somministrate da una valanga di decreti si è tradotta in un attaccamento (se non addirittura in una vera e propria dipendenza) ad una dimensione fittizia, fatta di social, videogiochi, serie TV e, nei casi peggiori, di visione di materiale pornografico, consumo di tabacco, alcolici e droghe, gioco d’azzardo.
Come se non bastasse, l'incidenza di depressione e ansia fra gli adolescenti è aumentata in maniera esponenziale, convertendosi, in una percentuale considerevole di casi - secondo quanto emerso da alcuni sondaggi - in disturbi del sonno e dell’alimentazione.
Molti sono anche quelli che, in maniera del tutto arbitraria, fanno ricorso a integratori alimentari e vitamine o persino a farmaci, trafugandoli dall’armadietto di casa (ansiolitici o antidepressivi) o acquistandoli in rete (antidolorifici e farmaci da banco), nell’illusione di poter curare così quel mal d’anima e quel senso di infelicità che li attanaglia.
La DAD, dal canto suo, lungi dall’essersi rivelata una soluzione efficace, ha finito per essere demotivante, avendo, da un lato, accentuato la difficoltà di concentrazione di cui già peccavano molti studenti; dall’altro, ha dimostrato tutta la sterilità di uno strumento che non può supplire a quel fine umano e sociale che, insieme alla trasmissione delle discipline, è assegnato alla scuola. Si è rivelata, dunque, esclusivamente come un meccanismo per veicolare contenuti, senza il condimento di quel legame empatico, di quel bisogno di comunicazione che sono indispensabili nella relazione tra alunni e docenti, giacché questi ultimi, spinti dalla necessità di completare programmi e verifiche in tempi sempre più accelerati, scanditi da altalene di lezioni in presenza e a distanza, si sono trasformati in burocrati, perdendo di vista l’aspetto più intimo e nobile del loro ruolo.
Per altro verso, e in percentuale anch’essa consistente, è aumentata nei giovani l’aggressività, sia fisica che verbale, nonché la tendenza al compimento di gesti di autolesionismo, giunta a volte perfino all’estremo del suicidio.
Proprio aggressività ed autolesionismo rappresentano gli aspetti più preoccupanti di questo quadro. Spesso hanno radici in problematiche preesistenti che il senso di vuoto e d’angoscia generato dall’isolamento, dalla privazione della socialità e dalla lunga permanenza all’interno degli stretti confini delle pareti domestiche ha contribuito ad esasperare; altre volte sono la conseguenza immediata e diretta di un profondo senso di frustrazione determinato da quelle stesse cause.
Ecco allora che può assistersi - in questo “tempo di mezzo”, in cui parte delle perdute libertà sono state recuperate, benché il ritorno alla normalità ancora difetti di pienezza – ad una escalation sensazionale di episodi di bullismo, di cyberbullismo e, ancor più, di risse e violenza in genere, spesso scaturente in forme delittuose ben più gravi: dalla violenza sessuale all’omicidio.
Le cronache ne sono piene: gli stupri di capodanno a Roma e Milano, l’omicidio di Robert, il 17enne ucciso a Trieste per gelosia da un amico di infanzia, il bambino di 11 anni, studente di scuole medie a Sulmona, che ha accoltellato un bidello, sono tra i più recenti.
Secondo esperti ed analisti si tratterebbe, in tutti questi casi, di gesti che, da parte di chi li compie, sono visti come modi per affermare la propria esistenza, anche nel confronto con gli altri e attraverso il dolore fisico; è come se l’aggressività e la violenza dimostrassero “il potere” di riuscire ad intervenire nella vite altrui (e anche nella propria, nel caso dell’autolesionismo), in luogo di diversi e più adeguati strumenti. Ciò che si è andata perdendo è, difatti, proprio la capacità di provare (e di interagire tramite) sentimenti, desideri, passione, quasi che la distaccata e irreale virtualità da cui i giovani sono stati fagocitati in questi due anni li avesse anestetizzati, resi degli avatar di sé stessi, privati d’ogni residuo di umanità.
Ma anche senza voler esemplificare questi episodi estremi, basta già soltanto osservarli nelle condotte tenute negli spazi in cui ora è loro concesso di ritrovarsi, quei grandi luoghi d’incontro all’aperto – quelle agorà – dove fino a qualche anno fa non tessevano certo i destini della nazione ma neppure assecondavano la deriva dell’insulsaggine e della sciatteria, viceversa anch’esse ora sventolate come vessilli di libertà riconquistata.
Davanti ai locali, fitti capannelli di giovani – molti dei quali evidentemente minorenni – si assembrano incuranti d’ogni prudenza, ammainando la mascherina sotto il mento, dando pietosi spettacoli della loro presunta indipendenza ed irriverenza: tracannano da bottiglie di birra o da calici di vino tenuti in bella vista come trofei, ridono sguaiatamente, fumano a due mani, franano a terra ubriachi, vomitano.
E’ uno spettacolo ignobile, davanti al quale sorge legittimo il dubbio se davvero debbano sempre e comunque considerarsi vittime della pandemia e dei guasti che ha causato o se, viceversa, proprio la pandemia non abbia finito per trasformarsi – per loro stessi e per gli adulti che, compatendoli, li assecondano – nell’alibi per concedere il condono a condotte che, in tempi pregressi, si sarebbero sicuramente imputate a dabbenaggine, irresponsabilità, immaturità.
Il confine può forse essere sottile, ma vale la pena di considerarlo per non diventare, nostro malgrado, tutti complici d’una “gioventù bruciata” che ostenta un preteso atteggiamento di riscatto fregiandosi della medaglia di martire.