Secondo l’autorevole “Treccani”, un influencer è un “Personaggio di successo, popolare sui social network e in generale molto seguito dai media, che è in grado di influire su scelte e comportamenti di un determinato pubblico”. Va da sé che capire esattamente quale sia il vero mestiere è onestamente difficile, ma è altrettanto vero che siamo nell’era in cui questa non-professione dilaga come non mai.
Al fondo, appena fuori dall’inquadratura, restava sospeso un problema di inquadramento che ha messo alla prova anche il Fisco, in particolare dopo il caso del “pandoro-gate” scatenato intorno al nome di Chiara Ferragni, l’influencer più celebre e seguita d’Italia. Un caso che nel gennaio scorso aveva spinto l’Agcom a diffondere alcune linee guida, fra cui l’obbligo di “Evidenziare la natura pubblicitaria del contenuto in modo prontamente e immediatamente riconoscibile”.
Sulla questione influencer è però arrivata una sentenza del Tribunale di Roma, la numero 2615/2024, che per quanto sia la prima di una possibile lunga serie destinata a “fare letteratura”, potrebbe avere notevoli ripercussioni sull’universo degli influencer. Secondo i giudici, i “creator digitali” che agiscono sui social network potrebbero essere tranquillamente equiparati gli agenti di commercio, al netto di alcune precise condizioni. È stata la conclusione di una causa che vedeva da una parte un’azienda di vendita online di integratori alimentari e dall’altra l’Enasarco, l’ente previdenziale di agenti e rappresentanti di commercio che dopo un accertamento aveva contestato il mancato versamento di 70mila euro per contributi “FIRR” (Fondo Indennità di Risoluzione del Rapporto).
L’azienda ha replicato che in base agli accordi non era previsto alcun obbligo contributivo, mentre per tutta risposta l’ente ha riformulato la richiesta portando il dovuto a 90mila euro.
Ai giudici romani è toccato il compito di addentrarsi non solo nei dettagli dei contratti stipulati con i diversi influencer, ma anche e soprattutto scandagliare il loro modus operandi, per riuscire arrivare alla conclusione: almeno per quanto riguarda la causa, gli influencer agivano come veri agenti di commercio, con attività di promozione delle vendite di prodotti per conto di una o più aziende.
Non a caso, secondo il parere dei giudici, i “creator digitali” avevano il compito di promuovere i prodotti dell’azienda seguendone le indicazioni, con l’obiettivo di aumentare le percentuali di vendita. Un’equiparazione che ha fatto scattare l’applicazione del contratto d’agenzia, per legge regolato dall’art. 1742 del codice civile, ma tenendo anche in considerazione alcune sentenze della Cassazione e del regolamento “Enasarco”, in particolare gli artt. 34 e 40 che riguardano le sanzioni per il mancato versamento dei contributi e l’inadempimento.
Una sentenza per molti versi epocale che apre nuovi scenari sugli obblighi previdenziali degli influencer, trascinando l’intero settore verso un’inevitabile regolamentazione che permetta la piena trasparenza su un mestiere tutt’oggi difficile da inquadrare. Ma le implicazioni potrebbero potenzialmente andare anche oltre le questioni previdenziali, sfociando facilmente nell’ambito fiscale: se gli influencer sono da considerare agenti di commercio, allora devono essere muniti di partita Iva e considerare i ricavi al pari delle provvigioni.
“La Fondazione Enasarco – interviene il presidente Alfonsino Mei – ha la necessità di aumentare la propria base contributiva per la stabilità su una prospettiva di 50 anni, come imposto dai ministeri vigilanti, così da riequilibrare il rapporto tra contributori e pensionati. Ora come ora, perdiamo migliaia di agenti ogni anno anche per la crescita delle piattaforme commerciali. In questo contesto vorremmo coinvolgere anche gli influencer per includere i giovani e per fare ciò abbiamo bisogno di un intervento del Governo, con cui stiamo interloquendo”. Contrari all’ingresso in Enasarco sono l’AICDC (Associazione Italiana Content & Digital Creators) e Assoinfluencer, due associazioni che rappresentano una fetta consistente dei 350mila professionisti del settore. Al netto di una presa di posizione ministeriale, assai probabile, a risolvere la questione saranno i tribunali.
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