Fintanto che si dibatteva su competenze e responsabilità o si sostenevano le contrapposte ragioni di tifoserie che spesso confondevano la questione umana ed etica con quella politica, la vicenda della piccola Indi Gregory ha mantenuto alta la sua posizione tra le prime pagine dei quotidiani.
Poi, dopo che i giudici anglosassoni hanno affermato il loro primato e non è rimasto che attendere che la sua vita si spegnesse lentamente, il clamore è scemato e persino la notizia della sua morte ha perso d’interesse, diventando una presa d’atto, retrocessa di qualche pagina.
Un atteggiamento, questo, che suggerirebbe un’ulteriore riflessione da aggiungere alle tante che “il Caso Indi” ha già stimolato.
La prima si basa sul dato medico oggettivo.
Indi – com’è ormai noto - era affetta da una malattia neuro-metabolica chiamata aciduria combinata D,L-2-idrossiglutarica, scoperta nel 2013 dai ricercatori dell’Università di Bari Aldo Moro in collaborazione con un’équipe israelo-palestinese. Si tratta di una patologia mitocondriale genetica recessiva, si trasmette cioè ereditariamente se entrambi i genitori sono portatori sani del gene mutato che ne è responsabile. La probabilità che il figlio nasca malato è del 25% e, nei casi più gravi, la malattia è progressiva e si manifesta con una forma di encefalopatia grave, insufficienza respiratoria altrettanto grave (che comporta la dipendenza dal ventilatore) e altre malformazioni (come quella che impedisce la formazione del corpo calloso che collega i due emisferi del cervello).
A Indi era toccata in sorte proprio la forma più grave e, dunque, una diagnosi di incurabilità e di assenza di terapie in grado di rallentarne il decorso, com’è per la maggior parte delle malattie mitocondriali. Unica speranza, lo sviluppo di terapie geniche, su cui però la ricerca è ancor lontana da una possibile sperimentazione.
La riflessione che allora si fa strada su questo primo dato è: i medici del Bambin Gesù di Roma cosa avrebbero potuto fare di più rispetto a quelli dal Queen's Medical Centre di Nottingham (che non è certo una struttura di infimo ordine), dove Indi era ricoverata?
Nell’una e nell’altra struttura avrebbe potuto essere seguito soltanto un protocollo di cure palliative.
La differenza, è, però, che l’ospedale inglese era deciso a non andare oltre, ad evitare qualunque forma di accanimento terapeutico, che, seppure avesse potuto allungare la drammatica esistenza di quella bimba, l’avrebbe tuttavia sottoposta a ulteriori e inutili sofferenze.
E qui si aggancia, allora, la seconda riflessione, di ordine morale.
È vero, è innegabile: il dolore di due genitori che sanno che la vita della loro bambina è attaccata – letteralmente – a un filo dev’essere devastante, e ancorarsi dunque a ogni barlume di speranza, fondata o meno che sia, che possa aggiungere esistenza a quella che sentono crescere e al tempo stesso morire tra le loro braccia diventa una necessità, una spinta propulsiva ad andare avanti, consapevoli che la loro resa comporterebbe inevitabilmente anche quella della loro creatura.
Il punto però è se la morale che guida le scelte di un genitore (indipendentemente dal credo religioso) quando rifiuta di rendersi “complice” della morte di un figlio, sia mutuabile da parte della politica, soprattutto se appare chiaro cha essa stia agendo per assecondare il moto empatico pressoché compatto dell’opinione pubblica nei riguardi di quella vicenda.
Il dubbio che sorge in sostanza è: può considerarsi obiettiva la condotta del nostro Governo? La solerzia e la tempestività con cui si è prodigato nella vicenda della piccola Indi, offrendole un’alternativa (tramite il conferimento della cittadinanza, che, viceversa stenta a riconoscere a tanti altri, compresi migliaia di bambini per i quali lo “ius soli” continua ad essere un’utopia. Ma questa è un’altra storia), potrebbe rispondere a logiche opportunistiche piuttosto che ad un reale convincimento? La valutazione politica non dovrebbe forse restare scevra da condizionamenti che – per quanto appresi e compartecipati – hanno giusta dimora soltanto nella sfera strettamente personale dei soggetti diretti protagonisti? Tanto più se vi è un’oggettività che è supportata da evidenze medico-scientifiche che non ammettono margine di dubbio alcuno!
È chiaro che i genitori di Indi pur avendo dichiarato, nelle loro intenzioni, di voler lottare per i diritti della loro bambina, in realtà stavano proteggendo la loro soggettiva visione etica della vita e della morte, giacché era della vita o della morte della loro figlia che si trattava.
Ed ecco allora che da questo argomento discende una terza riflessione, che è quella di carattere giuridico, o, anche, di “competenza”.
A chi spetta in finale il diritto di decidere cosa sia meglio – in termini di vita o di morte – quando la questione riguarda qualcuno incapace di esprimere la propria volontà (una bambina di otto mesi, nella specie) in un senso o nell’altro?
Spetta al tribunale (com’è poi accaduto)? Spetta ai genitori? E, in quest’ultimo caso, è sempre certo che i genitori decidano per il giusto? Quanti casi ci sono stati di genitori che, all’opposto di quelli di Indi, hanno invece negato (anche per questioni religiose o culturali) certe cure per i loro figli?
È evidente la difficoltà di dare una risposta a ciascuno di questi interrogativi, com’è chiaro che una sola risposta non può esserci, giacché diverse sono le idee, le posizioni, le convinzioni etiche, esistenziali e anche politiche.
Quello che però “il caso Indi” suggerisce è la necessità di soffermarsi a farle le riflessioni proposte, ma in maniera cauta ed oggettiva, non sospinti dagli entusiasmi e dalle foghe dei vari opinionisti che incitano con le proprie argomentazioni le rispettive tifoserie.
Non si tratta di parteggiare per l’una piuttosto che per tal altra visione, ma di affrontare coraggiosamente e assennatamente questioni destinate altrimenti a restare aperte ed a riproporsi in vicende simili o analoghe, e ad infiammare i confronti solo per la durata della notizia, tornando poi a spegnersi.
Serve invece che si definiscano, in maniera compiuta, procedure e competenze, si da impedire che allo strazio delle famiglie si sommi anche il tragico rimpallo delle scelte.