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Il genocidio palestinese

Autore: Ester Annetta
Lo scorso 29 dicembre, com’è noto, il Sudafrica ha chiesto alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja la condanna dello Stato di Israele per genocidio.

Non ha sorpreso tanto la provenienza dell’accusa: il Sudafrica ha un passato ben risaputo di apartheid, persecuzioni e sopraffazioni, dunque sa bene cosa significhi voler eliminare popoli, razze, culture intere. Ha sorpreso, piuttosto, che nessun altro Stato, tra quelli arabi in specie, lo abbia fatto.

Del resto che non si tratti di un’accusa fittizia un qualche riscontro ce l’ha: il massacro in atto è sotto gli occhi di tutti, trasmesso ora dopo ora da ogni emittente televisiva mondiale. Le stesse autorità israeliane hanno sempre chiaramente espresso quale sia l’obiettivo finale della loro “difesa” (perché di questo continuano a sostenere che si tratti!): anzitutto distruggere Hamas, con un’attività quotidiana e continua che, per la verità, provoca prevalentemente vittime civili; poi, prendere il controllo della striscia di Gaza, che frattanto, devastata da esplosioni, contaminazione del terreno e incendi, sarà diventata, a conflitto terminato, un territorio invivibile.

Se a tutto ciò si aggiunge che, nel mentre avviava il suo massacro, Israele ha anche messo in atto programmi di deportazione e spostamento coatto, costringendo i palestinesi prima a spostarsi verso il centro della striscia, poi più giù, al confine con l’Egitto, pensando finanche di trasferirne una parte in Congo, ecco che le condizioni per qualificare quanto sta accadendo come genocidio paiono esserci tutte.
Eppure, Israele ha respinto le accuse.

Dopo la requisitoria di Pretoria dello scorso 11 gennaio, conclusasi con la richiesta avanzata alla Corte internazionale di giustizia di ordinare allo Stato ebraico "di cessare le uccisioni e i gravi danni fisici e mentali ai palestinesi di Gaza, di porre fine alle condizioni di vita volte deliberatamente alla loro distruzione fisica come gruppo e di consentire l'accesso agli aiuti umanitari" - misure che, se adottate dalla Corte (che su questo punto dovrebbe pronunciarsi in queste ore, mentre scrivo, lasciando invece temporaneamente congelata la questione relativa alla qualifica di genocidio di quanto sta accadendo), saranno legalmente vincolanti – i legali di Israele hanno replicato il giorno dopo, contestando e negando che dietro l’offensiva militare contro Hamas ci sia una volontà di sterminio della popolazione palestinese.

«Non tutti i conflitti sono genocidi. Il crimine di genocidio nel diritto internazionale si distingue tra le violazioni come l’apice del male, il crimine dei crimini, il massimo della malvagità. Se le accuse di genocidio dovessero diventare moneta comune nei conflitti armati ovunque si siano verificati, l’essenza di quel crimine andrebbe persa» ha detto uno dei legali dello Stato di Israele, l’avvocato Malcolm Shaw.

Le parole sono pietre – come sosteneva Carlo Levi nell’omonimo libro – e, dunque, hanno un peso; rappresentano, anzi, l'essenza stessa di un sentimento altrimenti indicibile. Una parola può perciò creare, elevare, evocare, immortalare. Ma può anche ferire, distruggere, uccidere.

Se, dunque, da un lato Israele rifiuta che quanto sinora perpetrato ai danni del popolo palestinese sia qualificabile come genocidio, dall’altro va rilevato che non tutti i genocidi sono uguali. Il riferimento paradigmatico è, evidentemente, quello della Shoah, ma non è certo l’unico, come testimonia quanto compiuto nei confronti degli Armeni (anche se pure i turchi rifiutano tuttora di ammettere che sia stato genocidio, nonostante più di trenta Paesi, tra cui gli USA, lo abbiano invece), in Ruanda nel luglio del 1994 (quando furono massacrate almeno 500mila persone, prevalentemente di etnia Tutsi, corrispondenti a circa il 25% della popolazione) e persino, secondo alcuni, nei confronti delle popolazioni precolombiane sterminate dai conquistadores nelle Americhe.

E dunque, benché Israele si sforzi di negare l’appropriatezza del lessico respingendo il peso delle parole, innegabile rimane la dichiarata intenzione del suo governo di prolungare senza determinazione di tempo l’azione in corso, al fine di sbarazzarsi definitivamente di Hamas e, indirettamente, di tutti i palestinesi. E la disumanità con cui viene messo in atto questo sterminio ha, evidentemente, tutta la sostanza del genocidio, a prescindere da qualunque espressione si voglia impiegare per esporne la narrazione.

C’è un delicato passaggio in Romeo e Giulietta, dove Shakespeare fa dire alla fanciulla: “Che cos'è un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.”

Ecco, è di questo che si tratta: del tentativo di travisare la realtà dei fatti offuscandola con argomentazioni di opportunità.

A ben vedere, tuttavia, c’è un ulteriore passaggio che – prima di tutto – andrebbe fatto, ed è nella direzione di delegittimare non soltanto la violenza, lo sterminio, il genocidio, ma la stessa guerra.

Rendere illegale la guerra in quanto tale è il solo, efficace presupposto per annientare tutto ciò che ne è aberrante conseguenza.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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